La storia di Erald Leshi

Erald Leshi, illustrazione di Sandra Riva

Di Erald Leshi

Erald Leshi, classe ’96, nato in un piccolo Paese dell’est Europa: l’Albania. La mia fu un’infanzia tranquilla (per quanto possa essere tranquilla qualsiasi cosa in Albania). Vivevo in un piccolo borgo di campagna dove c’erano poco più di dieci case. C’erano più animali che persone essenzialmente. Nonostante questo, fu uno dei periodi più belli della mia vita. 

Ma le cose cambiarono dopo che ebbi compiuto 8 anni. Questa parte della mia storia comincia come molte delle altre storie che avrete letto in questo giornale: dolore e stanchezza. Era estate ed io ero al mare con i miei genitori e mia sorella. Cominciai a sentirmi sempre più stanco anche senza fare niente. Il peggio però era il dolore. Delle fitte intollerabili allo stomaco, come se venissi pugnalato. All’inizio non disse niente ai miei genitori. Avevo paura che mi portassero dal dottore e che la vacanza finisse. Alla fine, però non potevo più nasconderlo. Cominciò quindi quella corsa tra gli ospedali per capire che cosa avevo. Ognuno dava risposte differenti. Alla fine arrivammo a Tirana. Là i sospetti che da tempo aleggiavano, vennero confermati: «Vostro figlio ha la leucemia». 

I miei genitori spesso mi raccontano che in quel momento fu come se per loro il mondo si fosse fermato. Mio padre ruppe il silenzio. «Che cosa possiamo fare?», il medico che diede la notizia fu onesto: «Portatelo all’estero. Qua in Albania non ha speranze».

Spesso gli anziani nel mio Paese si vantavano dicendo che «l’Albania è una madre dura e crudele che non accetta di avere figli deboli».

Fu così che a settembre del 2004 io e miei genitori partimmo per l’Italia. Mia sorella ci avrebbe raggiunti un anno dopo e nel frattempo sarebbe rimasta coi nonni (non avevamo abbastanza soldi per portare anche lei).

Erald

Arrivati a Malpensa cominciarono i primi problemi. I miei genitori non sapevano parlare italiano e non riuscivamo a trovare i bagagli. Per fortuna io avevo passato gli ultimi otto anni a guardare cartoni animati, nel pomeriggio, sui canali italiani. Appena presi i bagagli svenni. Mi ricordo di essermi svegliato il giorno dopo all’ospedale san Gerardo di Monza. In seguito, mi dissero che durante il viaggio mi era salita la febbre a 40.

Cominciai subito le cure. Spesso e volentieri dovevo tradurre ai miei genitori. Uno dei momenti che mi sono rimasti più impressi è quando ho dovuto tradurre che da lì a poco avrei cominciato a perdere i capelli.  Personalmente non ci feci molto caso. A otto anni i capelli erano l’ultimo dei miei problemi. Infatti, la reazione dei miei genitori mi stupì non poco. Mio padre con lo sguardo perso nel vuoto e mia madre che non riusciva a smettere di piangere. «Santo cielo sono solo capelli chi se ne frega!». 

Oggi però capisco il motivo della loro disperazione: la caduta dei capelli era il segno definitivo, la conferma che «nostro figlio ha il cancro».

Ogni giorno parlavamo con mia sorella che non aveva affatto preso bene la nostra partenza. Si sentiva abbandonata. Ogni chiamata finiva in lacrime.

Trascorrevo la maggior parte del tempo a guardare fuori dalla finestra. Il reparto era all’undicesimo piano e fuori si vedeva tutta Monza. Per un ragazzo cresciuto in un piccolo paese di campagna dell’Albania, quell’immagine era incredibile. Palazzi a perdita d’occhio, macchine che passavano, ogni minuto una marea continua di persone. E poi il parco, un vero e proprio lago verde in mezzo al grigio della città. Volevo scendere giù per poterlo esplorare tutto, ma ogni volta lo sguardo cadeva sulla flebo

Tra un ciclo di chemio e l’altro stavamo nel Residence della Maria Letizia Verga. Là ebbi occasione di conoscere tanti altri ragazzi malati come me. La maggior parte di noi sapeva quello che aveva. Un giorno, mentre eravamo fuori a giocare, uno di noi se ne uscì dicendo che non vedeva l’ora di guarire dal raffreddore per tornare a casa. Lo guardammo tutti stupiti. Fu in quel momento che mi resi conto che molti dei ragazzi non solo non sapevano la reale entità della loro malattia, ma spesso e volentieri ne erano proprio tenuti all’oscuro. 

Le parole dei medici e degli infermieri mi risuonarono nelle orecchie: «Erald, dovresti dire ai tuoi genitori che dopo questo farmaco potresti sentirti molto stanco», oppure, «dopo questo farmaco potrebbero comparirti delle ferite in bocca», «con questo potresti avere nausea, con questo mal di testa, con questo quello, con questo quell’altro…».

Perché devo sapere tutte queste cose? Perché io sì e gli altri no? 

Una delle infermiere, Marisa, si rese conto della situazione: «Scusa, ma non potresti insegnare l’italiano ai tuoi genitori?». All’inizio pensavo che scherzasse, ma poi mi resi conto che non era una cattiva idea. Nei giorni successivi cercai di insegnare ai miei genitori almeno qualche frase basilare. Spesso senza molto successo, ma era un’occasione per distoglierci dal pensiero dalla malattia. Inoltre, fare la predica ai propri genitori perché non hanno studiato, è un’esperienza impagabile. 

Erald

Il resto della chemio proseguì in maniera piuttosto tranquilla. Per fortuna non ebbi complicanze o recidive.

Dopo la guarigione i miei decisero che tornare in Albania non aveva senso. Sia io che mia sorella nel frattempo avevamo cominciato la scuola qua, ci eravamo fatti degli amici e lo stesso valeva per i miei genitori.

Il resto della mia vita non è stato particolarmente emozionante (almeno paragonato a prima). Ad oggi la stragrande maggioranza delle persone che mi conosce, non sa nemmeno che ho avuto il cancro, non è che mi da fastidio parlarne, solo che non sento il bisogno di raccontarlo in giro.

Le rare volte in cui l’argomento esce fuori con i miei amici, finisce sempre che cominciamo a farci battute sopra.

Due anni fa ho deciso di iscrivermi alla facoltà di infermieristica. Sì, lo so, il classico cliché dell’ex bimbo col cancro che vuole diventare medico o infermiere. Ed in effetti è andata proprio così. Nel frattempo, ho cominciato anche l’attività di volontario al Dynamo Camp.

Fu lì che conobbi Eleonora, una ragazza che come me era stata ammalata. Lei mi introdusse nel mondo di B.LIVE, dove per la prima volta ebbi occasione di incontrare e confrontarmi con altri ragazzi e ragazze guariti. Tutti avevano affrontato e continuavano ad affrontare la loro situazione in maniera diversa, ognuno di loro però, aveva in comune il fatto di essere diventato più forte rispetto a prima.

Spesso, ripensando a quel periodo buio della mia vita, non posso fare a meno di chiedermi perché non mi sono arreso. In fondo sarebbe stato molto più semplice. Che razza di discorsi! Arrendersi sarebbe stato da sfigati.  

Sostieni la Fondazione, il tuo contributo ci permette di andare lontano sviluppando la ricostruzione, l’aggregazione e l’orgoglio comune insieme a un gruppo di ragazzi che hanno affrontato o stanno affrontando il percorso della malattia.