Liliana Segre «Mai più discorsi di odio»

Di Emanuela Niada

La Senatrice Liliana Segre, cara amica di mia madre e sua compagna di tanti viaggi, mi riceve nella sua raffinata casa milanese e chiacchieriamo di antichi ricordi. «Come ti trovi nella tua nuova veste pubblica?», le domando. «Quando il Presidente Mattarella mi telefonò per propormi la candidatura, mi sedetti un momento, per riprendermi dallo choc! Mi stupii di essere inserita, io semplice cittadina, tra i 5 Senatori a Vita: l’ex-Presidente Napolitano, l’architetto Renzo Piano, il Nobel per la fisica Carlo Rubbia, l’economista Mario Monti, la neurobiologa Elena Cattaneo e mi sono sentita molto onorata».

Liliana, orfana di madre a un anno, nel ’43 fuggì col padre in Svizzera, dove vennero respinti e inviati nel carcere di Varese, poi Como e infine a San Vittore «dove ero felice perché stavo con mio papà e quando lo vedevo triste cercavo di tirarlo su di morale. Non dimenticherò mai l’umanità di quei carcerati, che ci fecero coraggio quando fummo costretti a partire. Mentre a scuola, nel ’38, espulsi in quanto ebrei, fummo evitati e derisi da compagni e amici. La mia amata maestra riuscì solo a dire che non era colpa sua se avevano fatto le leggi razziali. Venivo da una famiglia di non praticanti e non capivo che colpa avessi. L’unica era quella di essere nata. Solo Susanna, la nostra domestica, ci rimase fedele e affezionata rischiando molto. Non potrò mai dimenticarla. 

Venni deportata in un vagone piombato, partito dal binario 21 della stazione Centrale, con 604 persone, spinte a calci, pugni e bastonate, abbagliate dai fari, tra fischi e i latrati dei cani, stipate come animali, con la paglia in terra, senza luce, né aria, solo un secchio per gli escrementi. Durante il lungo viaggio, al pianto di terrore e disperazione, si alternarono la preghiera e il silenzio in attesa di un destino sconosciuto. E quando arrivammo ad Auschwitz-Birkenau, uomini e donne furono separati e io lasciai la mano del mio adorato padre. Non sapevo che non l’avrei mai più rivisto. Fummo svestiti e rivestiti con pantaloni e giacche a righe e zoccoli in legno, mi rasarono i capelli e mi marchiarono a fuoco sul braccio sinistro il numero 75190. È dentro di me, non si cancella. Ero diventata un pezzo (Stuck). Venni informata da chi era già lì del significato delle ciminiere e del fumo. All’arrivo del treno, quasi 500 furono uccisi col gas e solo una ventina tornarono vivi nel ‘45. Superai tre selezioni, perché dimostravo più della mia età e venni scelta per i lavori forzati nella fabbrica di munizioni Union. Sopravvissi solo perché lavoravo al coperto, durante il gelido inverno. L’amica Janine non passò la selezione e io, felice di essere stata scelta per la vita, non le rivolsi una parola di conforto. Per tutta la vita ne ho sentito il rimorso. Indurita dalla sofferenza, abbruttita dalla sopraffazione e dalla morte che avevo intorno, non potevo permettermi di amare ed essere amata. I deportati reagivano in tre modi : chi si lasciava morire, chi diventava  kapò e chi, come me, si rifugiava nel suo mondo. Scelsi di estraniarmi da quell’orrore, dove vivevo come una bestia senza nome né esigenze e di notte cercavo una stellina che brillava al di là del filo spinato a cui aggrappare tutte le mie speranze». Liliana fu liberata dai russi il 1 maggio del ’45 a Ravensbruck e fece parte di quel corteola marcia della morte») di fantasmi sopravvissuti che avanzavano di notte disperati nelle strade innevate della Polonia, di lager in lager, smagriti, malati, mangiando ciò che trovavano per terra. I nazisti, ormai braccati, facevano saltar in aria i luoghi, evacuare i detenuti per cancellare tutte le prove. Nella fuga, un ufficiale si spogliò degli abiti militari, per un attimo la pistola cadde a terra e Liliana pensò che avrebbe potuto sparargli. Ma aveva scelto la vita, non voleva usare la stessa ferocia subita. Dopo mesi, a casa trovò vivi solo i nonni materni e le ci vollero anni per riadattarsi alla vita civile. Si sentiva diversa, incompresa.

Nessuno sospettava quanto era successo, ci vollero decenni prima di far luce sullo sterminio di sei milioni di ebrei. Nel 1990 iniziò a raccontare nelle scuole e in conferenze pubbliche la sua esperienza di testimone vivente, dell’Olocausto e della follia del razzismo, per onorare la memoria di tante vittime innocenti.

Mentre sono con lei, riceve continue telefonate da giornalisti per intervistarla sul tema dei migranti e sull’ultima polemica riguardo ai Rom. «Mi sono opposta a leggi speciali contro le minoranze, anche io ero stata richiedente asilo, nascosta con documenti falsi, poi operaia- schiava. Ricordo nitidamente che una sera arrivò al campo un treno con tanta gente e mi sembrò una gran fortuna che stessero insieme donne, uomini e bambini. E ho chiara in mente la mattina l’immagine del fumo denso e di tanti stracci che volteggiavano in aria. Seppi poi che erano zingari, tutti bruciati in una notte. E non posso scordarlo.

Non sono diventata la paladina dei Rom, ma non si possono condannare le persone solo per la colpa di essere nati. Per questo sono stata attaccata sui social». Le chiedo quali sono le questioni che le stanno più a cuore, risponde: «Principalmente tre: primo, vorrei far varare un decreto legge contro “Hate speech”, i discorsi di odio. So quanto potenti siano le parole e le loro conseguenze.

Secondo, rendere più efficace nelle scuole l’insegnamento dell’Educazione Civica, con l’articolo 3 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) per combattere la prepotenza. Terzo, rendere obbligatorio, con l’aiuto del ministro dell’Istruzione, lo studio della storia del ‘900 approfondendo tutti i genocidi, perché le nuove generazioni conoscano bene il passato e non si ripetano gli errori. Tu dovresti andare a visitare il borgo agricolo “Rondine”, Cittadella della Pace, ad Arezzo, dove convivono laici e cattolici, studenti di differenti nazionalità ed etnie spesso in conflitto come israeliani e palestinesi,ceceni e russi, tutsi e hutu e così via.

Un bell’esperimento che ha grande successo, un esempio concreto di rispetto reciproco per costruire la vera pace. Progetti così dovrebbero moltiplicarsi». Mi saluta con affetto, accompagnandomi alla porta e risponde all’ennesima telefonata.

Immagine in evidenza: https://www.tpi.it/2019/01/28/liliana-segre-chi-e-senatrice/