Nella sala d’aspetto – Infettivologia

Di Margherita Luciani

Oggi sono arrivata presto nella sala d’aspetto del reparto di infettivologia di un ospedale milanese, del quale non posso dire il nome per non violare la riservatezza delle persone intervistate: il tema è delicato, il tema è l’HIV. La sala d’aspetto è già affollata, scruto i volti per capire chi potrebbe avere voglia di raccontarsi un po’. Mi colpisce subito lo sguardo profondo e serio di un ragazzo di circa trent’anni che è seduto in un angolo, con un giornale in mano: lo avvicino e gli chiedo se possiamo scambiare quattro chiacchere sul perché è lì e su come ci si sente prima di una visita in infettivologia. G. ha voglia di parlare e di condividere la sua storia: «Ho preso l’HIV con un tatuaggio fatto durante un viaggio in Colombia dopo gli esami di maturità, con gli amici della scuola superiore: da lì non sono più stato lo stesso. Piano piano sono precipitato in un baratro profondo, non tanto per la malattia gestibile, alla fine, ma soprattutto per come vengo visto dagli altri quando mi trovo costretto a dire che ho l’HIV». Sì, G. ha ragione, perché il problema dell’HIV oggi è soprattutto lo stigma sociale che il mondo appiccica addosso a chi ce l’ha: molti pazienti mi raccontano che spesso si trovano di fronte a un enorme pregiudizio, e si sentono immediatamente trattati in modo diverso quando devono andare dal dentista. «Mi vergogno ad andare dal dentista, ma ti sembra normale?», mi dice G.; no, non mi sembra normale che all’alba del 2020 ci si debba vergognare ad andare dal dentista perché si ha l’HIV, e per di più perché l’HIV lo si è preso per caso, per un tatuaggio fatto in gioventù durante un viaggio tra amici.

Nella sala d’aspetto ci sono persone molto diverse tra loro, incontro anche P., un uomo di circa 40 anni, personaggio totalmente differente da G.: P. ha un aspetto molto trasandato e uno sguardo attonito e disperato: «Mi sento la feccia dell’umanità», mi dice. P. è tossicodipendente da molti anni ormai, da circa 20, e ha una storia completamente diversa da G., infatti ha contratto l’HIV tramite uno scambio di siringhe infette, in un momento della sua vita in cui era disperato e si iniettava di tutto e in qualunque modo. G. mi racconta: «Mio padre è morto che avevo 14 anni e mia madre ci ha abbandonato quando ne avevo 15, così sono cresciuto da solo in istituti vari fino ai diciotto anni e la droga mi è sembrata un aiuto, un modo per riuscire ad avere un po’ di socialità e un po’ di affetto. Almeno così si scherzava, si stava insieme. Solo quando ho avuto la prima crisi di astinenza ho capito che non ne sarei mai potuto uscire». G. mi dice che si sente ulteriormente guardato in modo diverso dagli altri: perché è tossico e perché è sieropositivo, per il mondo lui è il peggio del peggio. G. ha uno sguardo buono, di uno che nella vita ne ha passate tante ed è sempre riuscito a cavarsela, in qualche modo: non è giusto sparare sentenze su di lui e su chi, come lui, è caduto nella droga. Per G. la droga in quel momento rappresentava l’unica via, l’unico modo per uscire dal tunnel e per conoscere la vita, vita che aveva perso con la morte del padre e l’abbandono della madre. Parlando con la psicologa del reparto, arriva la conferma che è la gestione dello stigma legato alla malattia, il principale problema di tutti i pazienti che arrivano lì: non poter essere liberi di essere G., P., ma essere sempre considerati infetti, untori, pericolosi per gli altri. «Ti senti diverso, perché ti fanno sentire diverso», mi spiega la psicologa. Il modo migliore per combattere lo stigma è promuovere la responsabilità in ciascuno di noi, impegnandoci a rompere il muro del silenzio e combattere l’ignoranza con la diffusione di informazioni corrette. Solo combattendo lo stigma si può combattere e vincere l’HIV. Perché l’HIV non deve più essere un marchio sociale stampato sulla fronte di chi è sieropositivo, perché dietro ci sono storie: storie di bellezza, di coraggio, di tragedia, di cadute e risalite che possono e devono avere un senso e a cui, come esseri umani, abbiamo il dovere di restituire dignità. Bisogna stare attenti alle persone che stigmatizzano e non alle persone sieropositive, perché il contagio fisico non esiste, ma quello mentale sì, esiste eccome!