Di Monsignor Borgonovo
«Renzo, salito per un di que’ valichi sul terreno più elevato, vide quella gran macchina del duomo sola sul piano, come se, non di mezzo a una città, ma sorgesse in un deserto; e si fermò su due piedi, dimenticando tutti i suoi guai, a contemplare anche da lontano quell’ottava maraviglia, di cui aveva tanto sentito parlare fin da bambino».
Alessandro Manzoni – Promessi Sposi
Questa immagine, tratta dal Capitolo XI dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni, racchiude tutto lo stupore che ognuno di noi, almeno una volta nella vita, come Renzo, ha provato nel contemplare la Cattedrale. Sì, perché dietro la bellezza del Duomo di Milano c’è davvero una «gran macchina», un complesso motore che non conosce sosta: la Veneranda Fabbrica. Qui occorre entrare in una dimensione più alta, dove non si ragiona nell’immediatezza, perché il metro è l’infinito, dove non esiste artista, perché unico protagonista è un popolo chiamato a rinnovare generazione dopo generazione, da oltre mezzo millennio, questa grande missione. Nei cantieri del Duomo non si può far nulla di modesto. Pur facendo proprio uno stile umile e laborioso, la Veneranda Fabbrica, in ogni epoca, non può misurarsi con la contemporaneità scegliendo la strada dell’accontentarsi, della via di mezzo. Spesso in silenzio, essa ha inciso nella pietra il più formidabile racconto di Milano, plasmando quella domusin grado di superare tutte le barriere del tempo. Domus perché il Duomo è patrimonio di tutti, dei cittadini milanesi in primis, che ne sono i proprietari, ma anche di tutti coloro che ne abitano la bellezza, ovvero di quei cinque milioni di persone che ne varcano le soglie ogni anno.
La forza della Veneranda Fabbrica nei secoli è quella di essere stata sempre fedele a se stessa e alla propria missione. La sua energia è frutto dell’intreccio tra la propria sapiente vitalità e la laboriosità meneghina. Per usare le parole di Emilio De Marchi nella poesia El Noster Domm: «l’è la cà da Milan, l’è tutt de màrmor, l’è grand, l’e bell, l’è lù, domà lù in tutt el mond, inscì bell, inscì grand».
È una storia imponente. Tuttavia, le figure che la popolano sono quotidiane, persino esili. Un’epopea che ha passato indenne le tempeste della storia, al di sopra delle vicende terrene e degli intrighi di potere, nel segno di quello spirito di servizio e capacità di dialogo che hanno portato la montagna del marmo di Candoglia a divenire il simbolo della città di Milano nel mondo: come casa di Dio, tabernacolo dell’eterna bellezza, piantata tra le tende degli umani. Governanti e politici hanno dovuto misurarsi con questa serena fermezza sin dalle origini, da Gian Galeazzo Visconti a Napoleone Bonaparte, fino ad oggi. La Veneranda Fabbrica sente la responsabilità di portare avanti questo alto compito che la impegnerà per sempre a nome di tutta la cittadinanza.
Chi lavora in primisin Fabbrica, infatti, dal presidente Fedele Confalonieri all’ultimo dei dipendenti, vive l’orgoglio e l’importanza di questo compito, la responsabilità di fare e di fare bene, poiché sa che attraverso il proprio rapporto con la pietra, la Cattedrale continuerà a crescere, permettendo a chi verrà di raccogliere e continuare questa preziosa eredità.
Vi sarà sempre qualche Napoleone che cercherà nel Duomo il mezzo per realizzare le proprie ambizioni personali, costruendo persino una facciata per incoronarsi re. D’altra parte, però, il popolo dei Milanesi – nel simbolo: l’eccellenza degli scalpellini – cercherà sempre, nell’edificare il Duomo, la propria realizzazione attraverso la bellezza del dialogo con Dio, in una moralità che è quanto di più lontano ci possa essere dal potere fine a se stesso. Tali dimensioni si sono spesso scontrate nelle vicende umane, ma la Fabbrica ha saputo vincere e proseguire a testa alta nel proprio cammino, nonostante tutto e tutti, dalla parte della Civitas Mediolani.
Anche oggi che i milanesi si sentono più che mai cittadini del mondo, continuano a sentire il Duomo come qualcosa di veramente personale. Anche se indirizzano lo sguardo altrove, tornano sempre a cercarlo. Forse perché il Duomo, per dirla con le parole di Herman Melville, l’autore di Moby Dick, che visitò Milano tra il 1856 ed il 1857, «non è l’ideazione, ma l’esecuzione». Qualcosa che coglie veramente l’espritmeneghino. Forse perché anche lo spirito imprenditoriale, il design, la moda e tutto ciò che è Milano nel mondo è frutto dell’esperienza della Cattedrale.
Milano sta vivendo un momento di crescita e di grande sviluppo, urbanistico e turistico. È necessario che tale epoca di cambiamento coincida con un tempo di rigenerazione umana e intellettuale, di impegno civico, sociale e politico che – come in alcuni momenti forti della storia della nostra città, quali l’umanesimo, la grande stagione di san Carlo Borromeo, la missionedel card. Montini – trovi nel Duomo il proprio centro. Tale compito è affidato ai milanesi, a quell’«uomo d’oggi» che è sempre più «un mistero crescente», per usare un’espressione cara a San Paolo VI.
Come Veneranda Fabbrica, negli ultimi anni, abbiamo voluto restituire al Duomo la sua dimensione di domus culturae, promuovendo iniziative che rappresentassero una fonte cui ogni milanese possa facilmente attingere per dissetarsi e saziare la propria sete di conoscenza. Ad esempio, attraverso i molti concerti (cito solo l’esecuzione della Missa Papae Pauli il 24 settembre scorso, resa possibile grazie alla collaborazione con il Teatro alla Scala o il Mese della Musica), gli incontri della Scuola della Cattedralee le mostre presso il Museo del Duomo. Proprio in quest’ultima sede, dal 22 novembre al 23 febbraio 2020, sarà allestita la mostra Il Duomo al tempo di Leonardo: un’esposizione che riporterà idealmente in Cattedrale il genio fiorentino e il suo progetto per il tiburio, tracciando un affresco della Milano del Quattrocento, in cui egli lavorò e operò. Una città che presenta varie analogie con quella a noi contemporanea. Ai lettori de Il Bulloneformulo l’invito a visitare la mostra e a scoprire quali.
Mons. Gianantonio Borgonovo
Arciprete del Duomo di Milano