Intervista impossibile ad Enzo Jannacci

Di Arianna Rosa

Enzo Jannacci interpretato da suo figlio Paolo Jannacci.

Buongiorno signor Enzo Jannacci.

«Molti dicono così, però non è detto… Non è che c’è da chiamarsi. Qui c’è gente che si chiama, che non si chiama… poi, mi chiami come vuole». 

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Vada per signor Jannacci, esageriamo! A proposito, l’importante è esagerare diceva qualcuno. È un approccio esistenziale? 

«Anche senza signor – va – anche senza Jannacci… Si deve esagerare! Sia nel bene che nel male. Esagerare dà la possibilità di mettersi alla prova. Poi si ride sempre quando si esagera, a patto che non si perdano di vista i propri limiti. Rispettarli è la regola».

Come fa lei, anticonformista, libero pensatore distante dal gusto comune a conquistare le persone?

«Bisogna rischiare un po’. E bisogna far sentire la propria voce, il proprio pensiero. Può unire, dividere, far riflettere, scioccare, ma una reazione la genera. Importante è l’ascoltatore, il pubblico. Il vero successo è il loro desiderio di mettersi in gioco, di fare della riflessione in una canzone, un nuovo pensare». 

Qual è il fil rouge tra il suo essere cantautore, musicista, intrattenitore, scrivere canzoni, recitare a teatro, fare il medico? Che cosa ci vuole in più? 

«Ma davvero faccio tutte queste cose?! Ma nooooo…L’è n’alter! Cosa ci vuole? Ci vuole l’amore per quello che fai e l’amore per chi ti stai spendendo. L’è minga facil! Un lavoro non si improvvisa, si deve studiare, si impara ascoltando i maestri, si impara con una lunga gavetta, con gli sbagli, con le prove, la caparbietà, la testa dura perché ci credi».

«Vengo anch’io, no tu no». Tema dell’esclusione senza spiegazione. Scritta nel 1968 e sempre più attuale. Che piega ha preso il mondo?

«Ha preso una brutta piega per il prevalere dell’egoismo che sfocia nella violenza e nell’intolleranza. Purtroppo ci sono sempre più persone che perdono di vista il valore della vita e delle cose, non orientano il proprio animo verso uno stato di solidarietà comune per incontrarsi, ma combattono gli uni contro gli altri escludendosi. Si è persa l’umanità e il rapporto con la cultura è inesistente, molto povero. Questo porta al prevalere degli istinti più bestiali sulla ragione e sul cuore. Brutta gente (canzone del 1974, ndr) né è una voce. Anche Milano è cambiata. Sempre più posti chiusi, gente compresa. Per fortuna c’è sempre il Tram e d’inverno, ogni tanto, ancora la nebbia».  

Nel brano «E allora concerto» guarda ai giovani, alla loro voglia di ascoltare, di imparare mentre in «Se me lo dicevi prima» affronta il tema della tossicodipendenza. E allora sarà ancora bello quando… 

«…E allora sarà ancora bello quando ti innamori, quando guardi fuori, quando guardi il tunnel, quando senti il sole… Ne ho visti tanti di ragazzi stare male. Avevo grande rabbia quando li vedevo in preda alla dipendenza dell’eroina e della droga, quando non c’era nessuno che li ascoltava, che dava risposte alle loro tante domande. Sono molto legato a loro. Ho sempre cercato di parlare in modo diretto, senza nascondere nulla della vita. Quando non riesci a trovare un significato, ti vedi sbattere le porte in faccia e subisci soprusi, è sempre uno sbaglio perdersi, è sempre un errore, perché non sei una vittima e non sei neanche un combattente; sei solo uno che sbaglia e che si è dimenticato le priorità della vita. La canzone rimane una testimonianza culturale. È importante che ci sia». 

Enzo Jannacci interpretato da Max Ramezzana

Lei è multimediale: parola, immagine e mimica. Ha anticipato i tempi e ora è perfettamente al passo pur avendo cominciato una carriera tanti e tanti anni fa, già avanti anni luce, quindi. Che dna ha?

«Non so, lo dice lei! È stato naturale, ma io non c’entro con questi aggeggi, i social e compagnia varia. Ho avuto grandi maestri. Oltre a quelli della Rivista, da Totò a Renato Rascel, un riferimento e un’ispirazione inesauribile, ho avuto tanti maestri musicisti e senz’altro Dario Fo che mi ha raccontato l’economia dello spettacolo, mi ha insegnato come muovermi, quali ancore perseguire. La Franca (Rame ndr) era disperata quando lavoravamo insieme; io mi mangiavo le parole, mi emozionavo parecchio, e non capiva quello che dicevo. Quando chiamavo al telefono cercando Dario rispondeva lei: “Non si capisce quello che dici!” Mi diceva sempre. Allora dopo un paio d’anni mi sono scritto delle cose da dire scandendo ogni parola in modo chiarissimo e lento. Lei urla a Dario dall’altra parte della cornetta: “Dario, Dario, senti qui, Enzo parla!” Dario: “Ma Enzo ha sempre parlato!”, “Sì, ma adesso si capisce quello che dice! Cosa fai lì con quella bella voce, vieni qui subito a casa che parliamo!”. Allora io prendevo la Vespa e li raggiungevo. Si cominciava a parlare. “Ma parlami come al telefono, eh!”, mi diceva la Franca!».

Suo compagno artistico, anche Gaber..

«Gaber era come un fratello per me, un grande amico, siamo cresciuti insieme musicalmente. Eravamo I due corsari. Abbiamo diviso palchi, teatri, abbiamo cantato e raccontato la vita, allergici a un pensiero precostituito, instaurando con il pubblico un rapporto magico, straordinario, intenso. Tanto diversi quanto complici. Avevamo un grandissimo rispetto l’uno per l’altro. Ci volevamo bene».  

Nelle più belle trasmissioni Rai, nei teatri, nei concerti, nei film di Scola, Ferreri, Wertmüller, Castellitto, con i grandi personaggi Tognazzi, Mina, Tenco, Endrigo, Fo, Gaber, Celentano, Conte, Cochi e Renato, lei c’era…

«Ehh, ma sembro Matusalemme così! C’ero perché avevamo voglia di dire, di partecipare alla vita sociale, politica, civile, ognuno con il proprio sentire, con il proprio pensiero, un personale modo di esprimersi, ognuno con la sua arte».

Che cosa ha trasmesso a suo figlio Paolo e ai giovani, tanto cari a lei?

Mi guarda, guarda la città che tanto ama, guarda le sue mani con un sorriso leale e consapevole. 

«Sa, davanti a un figlio sorridiamo tutti nello stesso modo, non ci sono differenze. Insieme a mia moglie, la Pupa, una donna meravigliosa – è lei che ha saputo mediare ogni cosa e ha fatto quadrare i conti, mica io! – abbiamo cercato di trasmettergli il rispetto per se stessi e per gli altri, il valore delle cose semplici, l’umiltà, il fare le cose bene; il resto va tutto di conseguenza. I giovani vanno ascoltati, vanno incoraggiati ad esprimere il proprio pensiero, il proprio valore, le potenzialità, con rispetto, senza paure. Non servono tante parole, sa. Bisogna fare noi per primi, parlare, raccontarsi emozionarsi. Loro sanno guardare, sanno riconoscere chi c’è e chi non c’è. Senza barare però! Non bisogna deluderli. Forse non mi capivano quando parlavo agli inizi, ma loro sapevano leggere nella coscienza di un semidisgraziato come me che scriveva nove, dieci pensieri in una canzonetta e ha sempre amato chi portava i scarp de tennis. E poi sa una cosa? Nella vita ci vuole orecchio… e loro ce l’hanno!».