Incontro con i detenuti di San Vittore

Mattinata insolitamente grigia, piovosa e umida quella del 13 Giugno, a qualche giorno dal solstizio d’estate, mattina che ha visto i B.Livers ritrovarsi innanzi al portone affacciato su Piazza Filangieri 1, sotto la targa «Casa circondariale di Milano».

Nessun arrestato, nessuna custodia cautelare per i ragazzi col bullone appeso al collo!

Così, come precisato infatti dal Comandante della Polizia Penitenziaria di San Vittore, che accoglie il gruppetto di sfacciati curiosi, quello da cui sono entrati non è nient’altro che l’ingresso pubblico, non certo quello da cui incorrono, in tarda notte, le camionette e le auto con le luci blu accese con a bordo nuovi arrestati.

Un’altra dovuta precisazione interessa la corretta apposizione da accostare a San Vittore che, a differenza di Bollate e Opera, vere e proprie «carceri» milanesi, – poiché case di reclusione con detenuti che hanno ricevuto una condanna definitiva -, è per l’appunto «casa circondariale», perché accoglie soggetti ancora in attesa di giudizio, ma su cui si concentrano gravi indizi di colpevolezza, insieme all’esigenza di prevenire l’inquinamento delle prove, o che i fermati si diano alla fuga; tutti elementi necessari proprio per giustificarne la detenzione e la restrizione della libertà personale.

Dopo scrupolosi controlli e passaggi al metal detector, il gruppo, arricchitosi di nuovi volti – tra cui il direttore de L’Oblò e volontari che operano all’interno del carcere – viene compattato nel cortile esterno, da dove, già solo guardando le mura della parte di struttura visibile, si evince che l’istituto è parecchio datato, costruito nei primissimi anni dell’Italia unita, più precisamente nel 1872, come puntualizzato dalla nostra guida.

Attraversando il lungo corridoio che conduce allo spazio circolare sovrastato da una grossa cupola, è impossibile non notare i sei cancelli separati che «aprono il passaggio» ognuno al rispettivo raggio numerato; una struttura siffatta, detta per l’appunto «a raggiera», era stata progettata e utilizzata in origine per tenere sotto controllo i detenuti dal centro e per permettere loro, nel contempo, di biasimarsi e pentirsi dei propri peccati, chiedendo perdono al protettore lì affrescato, che dà il nome alla casa circondariale stessa.

La visita dei ragazzi del Bullone forse inaspettata, dopo aver destato la curiosità dei detenuti affacciati ai cancelli per i visitatori, si limita però, per motivi tempistici e di sicurezza, al Terzo raggio, al cui ultimo piano, in un settore decisamente più nuovo e completamente ristrutturato, c’è la riunione di redazione de L’Oblò, il mensile che volge lo sguardo alla popolazione di San Vittore, scritto dai ragazzi de «La Nave», la sezione dove sono detenuti soggetti affetti da tossico o alcol dipendenze e indagati per la commissione di reati.

Qui invece, la sensazione non è quella di essere ospiti non graditi o inaspettati; molti lasciano poltroncine e sedie da cancelleria a disposizione dei giovani cronisti competitors, e nell’aria aleggia e si respira la tensione tipica di chi un po’ teme il giudizio altrui, ma al contempo è spinto dalla curiosità di chiarirsi le idee e concretizzare le aspettative dell’incontro.

La folla intorno alla scrivania tra cui anche infermieri, educatori, giornalisti e altri professionisti che operano quotidianamente all’interno del carcere dal 2002, da agitata e quasi disinteressata quale si era dimostrata, si acquieta e ascolta con vero interesse e travolgimento le prime parole di presentazione di Sofia e Giancarlo.

Le tematiche affrontate da quasi scontate e già viste che potevano sembrare, diventano subito oggetto di continui interventi e botta-e-risposta vissuti con trasporto ed entusiasmo, anche e soprattutto, dai molti ospiti della Nave che pur faticano ad esprimersi in una lingua diversa dalla loro; il parallelismo connotato da distanze incolmabili tra concetti di «libertà perché sottratta per aver commesso errori nella società e contro la legalità» e «libertà sottratta per colpa del Fato o del nulla, libertà sottratta ad un adolescente che non ha più la certezza di essere in piena salute», apre paradossalmente la porta – in un posto che conosce solo mura e grate – a una domanda che impatta come una bomba: «Che cosa si può fare? Cosa possiamo fare noi nel nostro piccolo?».

Gli interventi e i tentativi di risposta, alternati a racconti di esperienze personali, vanno inconsapevolmente a sfiorare temi quasi filosofici del «microcosmo che si innesta all’interno e fa funzionare il macrocosmo»; per migliorare il mondo, bisogna migliorare prima se stessi, lavorare su di sé, superare e cancellare, per quanto difficile possa essere, la rabbia; la rabbia per quella cellula maledetta e invisibile che circola all’impazzata dentro un giovane corpo; la rabbia per essersi visti sottratta la libertà, vivendo una separazione coatta dai cari e dagli affetti; la rabbia di esser giudicati dal mondo «esterno», sia esso fuori del carcere o dall’ospedale.

Interviene, quasi con tono provocatorio, spezzando il discorso sulla solidarietà tipica che si consolida in carcere e in generale nelle situazioni di sofferenza condivisa, il volontario del coro musicale: «Non si possono fare paragoni che non reggono. Questi ragazzi vogliono guarire a tutti i costi e non hanno scelto o deciso loro il motivo della loro ristretta libertà; il vostro problema, il motivo per cui siete reclusi qui dentro è dipeso dalle vostre scelte e soprattutto la vostra patologia è legata al non voler guarire, a non volervi separare dalle vostre dipendenze».

«Qual è la vostra vera prospettiva, senza ipocrisie e finti buonismi? La vera prospettiva di cui si parla e che deve scandire ogni singola vita in vista di un miglioramento a livello globale? Immagino sia uscire il prima possibile da qui e tornare ad esser liberi».

«Quello che mi dà la forza qui dentro e che al contempo mi rende debole, è l’amore per mia figlia», dice un ragazzo magrebino della Nave.

«Per me non c’è solo la mia prospettiva, non voglio guarire solo per curare me stesso; ogni giorno in più, so che è un giorno in più, soprattutto per gli amici che ho incontrato e che purtroppo non ce l’hanno fatta ed è un giorno in più per chi mi ha a cuore e mi vuole bene», risponde in modo più che lucido Ale, ragazzo B.LIVE.

Un suo omonimo, ma dall’altra parte dei muri che separano gli uomini liberi da quelli a cui la libertà viene sottratta e limitata, interviene in maniera meno ottimista: «qui alla Nave siamo tutti solidali tra noi, ma non è facile sorridere qui dentro, come invece riuscite a fare sorprendentemente e in modo quasi invidiabile voi; sul fondo di quella parete c’è disegnata la poppa di una nave, motivo per cui questo posto è stato così ribattezzato, ma a guardare bene, sembrerebbe proprio una nave che attracca in un porto, non che salpa verso l’orizzonte, quasi a ricordarci che quell’unica e illusoria finestra sul mondo esterno, è in realtà un segno evidente che precisa il nostro rifugio costretto qui dentro», conclude con tono ironico, accompagnato da qualche risata.

Sul finire dell’incontro, interviene Pasquale: «Per me l’unico modo per migliorare l’umanità è questo: iniziare a educare il mondo esterno, spronandolo a vedere e a toccar con mano tutto quello che si vive dentro gli ospedali, dentro le carceri; è necessario vedere e sentire la sofferenza altrui per sperimentare la vera Solidarietà e far sì che migliori davvero qualcosa!».

Così i B.Livers, quasi sulla scia del consiglio urlato e dispensato da Pasquale, terminano l’incontro con i detenuti con una piccola incursione all’interno delle celle, dove – insieme a letti accatastati, tetti spioventi, grate con appesi calzini ad asciugare per catturare quei pochi raggi di sole che penetrano dalle inferriate, pareti tappezzate di foto di bambini che non vedono più così spesso i loro papà – diventano testimoni oculari del perché la Corte di Strasburgo abbia inflitto all’Italia quella condanna per le condizioni disumane causate dal sovraffollamento delle carceri. E nonostante gli effetti della sentenza Torreggiani del 2013, la cosiddetta «sentenza pilota» che era riuscita a ripristinare negli ultimissimi anni a San Vittore il rispetto della dignità umana, ora le condizioni vengono messe inevitabilmente e nuovamente in discussione dai lavori di ristrutturazione in corso nel carcere.

Nuova esperienza, nuovo arricchimento: liberarsi dalle gabbie che ci costruiamo noi stessi, è forse il piccolo vero passo verso la Libertà.