Il dolore più grande raccontato dalle mamme

VITTORIA

Di Alice Nebbia

«Il dolore per la perdita di un figlio va vissuto, va vissuto tutto, è un sacrosanto diritto di ogni genitore che ha provato questo strazio», con queste parole Vittoria Di Pilato pensa alle madri e ai padri a cui è morto un figlio. 

Lei, che oltre alla morte della figlia Eleonora Papagni, portata via da un tumore in giovane età, aveva già provato il dolore per la scomparsa del marito e del padre.

Una sofferenza lunga e prolungata quella di Vittoria, come quella di Eleonora, contro un male al quale la giovane ha cercato di opporsi, lottando fino all’ultimo. 

Da madre, Vittoria, ci fa capire che la perdita di un figlio arriva a fare a pezzi la tua vita e non ci sono parole adatte per descrivere il vuoto che lascia, se non il ricordo del «tuo sentirti impotente di fronte alla sua sofferenza». 

Una comprensione vera nei confronti di un genitore a cui è venuto a mancare un figlio, non necessita parole ma gesti d’affetto, abbracci calorosi e autentici.

Dalla scomparsa di un figlio, la tua vita si consuma in periodi che «alternano dolore, tristezza, felicità e poi ancora dolore, momenti che si susseguono come se fossi su un ottovolante». 

Una condanna che consuma la tua mente, il tuo cuore, il tuo corpo. 

Vittoria con la figlia Eleonora

Oggi Vittoria fa parte di un’associazione, Genitori per SempreNel gruppo siamo mamme e papà (una dozzina nel milanese e poi molti altri in tutt’Italia) che abbiamo perso i figli, chi per malattia, chi per incidenti, chi per suicidio. Ci ritroviamo periodicamente e cerchiamo di supportarci a vicenda; il dolore di una madre che ha perso un figlio per malattia incontra il senso di colpa di un padre che non è riuscito a evitare il gesto suicida del figlio e il dramma di un’altra mamma che vede suo figlio morire in un incidente». Dolori che s’intrecciano, s’accompagnano, si contagiano perché partono tutti dalla mente e dal cuore.

Il limbo nel quale sono costretti questi genitori è qualcosa che va oltre l’umana razionalità, a cui non si troverà mai una spiegazione, perché «Tutte le perdite sono strazianti, ma quella di un figlio per il quale tu daresti anche l’anima, è la perdita che più ti esaspera; Eleonora è spirata nel momento in cui le ho detto che non potevo più vederla soffrire; lei mi ha sorriso e poi se ne è andata. Da allora ho subìto una mutilazione, una ferita che non guarirà più. Ogni giorno per me è uno in più senza di lei, ma uno in meno per avvicinarmi a lei». 

Vittoria ci spiega che con il dolore non si convive, si sopravvive. Giorno per giorno, attimo per attimo, ci «si riempie di lavoro e di diverse attività per fare in modo di non rivivere certi attimi che però poi incombono, perché sono sempre lì, latenti».

Come madre, Vittoria sente la mancanza della figlia come un vuoto nella pancia. «Ele manca, mi manca toccarla, sentirla. Ma lei mi fa capire che è con me in ogni momento: mi ritorna in sogno, la percepisco nei profumi di casa, nei cibi che vedo e che piacevano a lei, quando cucino. A questo proposito mi ricordo che una volta, cucinando dei biscotti la pasta ha preso la forma di un cuore! Eleonora era una fantastica B.liver, conquistava tutti con la sua spontaneità, era una cronista del Bulloneche si occupava delle recensioni dei libri fantasy, la sua grande passione. Quando abbiamo partecipato al Viaggio delle Stelle con i B.livers, eravamo quasi arrivati a Cortina e in cielo è apparsa una nuvola a forma di E. Ho pensato subito a lei e ho capito che Ele c’è. C’è sempre. Lo sento, ne sono certa». 

TIZIANA

Di Giulia Verbena

Luce. È la prima parola che mi viene in mente guardando questo foglio bianco; Luce, come quella che inondava il terrazzo sul quale ho incontrato Tiziana ieri.

Tiziana è una donna, una mamma, ma non una mamma qualsiasi. È una donna che 31 anni fa corse in Perù per un incontro che le avrebbe cambiato l’intera esistenza: andava a prendere l’amore della sua vita, suo figlio Andrea

Andrea l’avete conosciuto in molti, chi di persona, come ne ho avuto la fortuna io, o tramite questo giornale sul quale oggi mi trovo a scrivere queste righe.

Tiziana mi vede arrivare e spalanca le braccia, gli angoli della sua bocca si sollevano in un sorriso rassicurante e dolce, ci stringiamo fortissimo e ci accomodiamo; non ho bisogno di farle alcuna domanda, si sente libera di esprimersi: «Con te è come se parlassi con Andrea, eri il suo amore,  Jules», i miei occhi sorridono restando attenti su di lei mentre parla di suo figlio, il suo Andre, il mio Andre.

Tira fuori dalla borsa decine di foto, mi ricorda Mary Poppins che mettendo mano alla sua valigia ne estraeva della magia, e di questo abbiamo parlato: della magia di Andrea che tutto ciò che toccava trasformava in passione. 

Quando perdi un figlio la tua vita precipita; quando questo figlio l’hai cercato disperatamente e sei andata in capo al mondo per prenderlo e portarlo a casa con te, ci si domanda ancora più fortemente come si possa vivere dopo un dolore del genere. 

«Si sopravvive, non si vive», è la prima risposta, «vivo le mie giornate senza programmare nulla, se ho voglia di ridere, rido, se ho voglia di piangere, piango. Parlo con lui sempre, pranzo con la foto di mio figlio di fronte e converso con lui».

Chiedo di raccontarmi dall’inizio la storia della sua malattia, perché dovete sapere che Andrea tendeva a dire le cose filtrandole, con la delicatezza di chi non vuole ferirti o esporti al dolore; Tiziana mi racconta che in prima battuta la malattia di Andrea non era stata riconosciuta, esponendolo così al pericolo di aggravamento. 

Porta il peso del senso di colpa, come tutte le madri che sanno che c’è qualcosa che non va, ma non possono in quel momento comunicarlo e se lo tengono nel petto come un macigno; Tiziana però, sa che è la cosa giusta da fare in quel preciso istante e tiene per sé il dolore. È cosi che vive una mamma, in un continuo dualismo di protezione e senso di colpa. 

Una volta accertato quale fosse il quadro, in Humanitas viene comunicato anche a lui.

«Mi ha detto: TI ODIO, me l’hai tenuto nascosto. Quando tornammo a casa andò via per tre giorni. Era così arrabbiato e io mi sentivo così in colpa. Ma cosa potevo fare se non ciò che ho fatto?». 

Una mamma non vorrebbe mai trovarsi nella situazione di perdere un figlio, una situazione così innaturale che non porta nemmeno un nome, una catalogazione, una definizione. Esiste la parola orfano di madre, ma non la parola orfana di figlio

Una mamma domanda a Dio perché: «Me l’hai mandato e poi me l’hai tolto. Perché non hai preso me? Io la mia vita l’ho fatta, lui ne aveva una davanti».

Ci stringiamo le mani e prosegue «la vita di Andrea erano i suoi amici, eravate voi, si sentiva parte di qualcosa di grande e di importante, in voi rivedo lui».

Mi viene spontaneo rifarle la domanda che le ho posto all’inizio della nostra conversazione: «Come si vive il dolore per la perdita di un figlio?».

Accenna un «Vivo per me», e spiega: «Andrea mi diceva sempre che dovevo fare le cose per me, pensare a me, fare la mia vita. Sto pensando di andare in Africa e condividere il mio amore per mio figlio, che è infinito, dedicandomi a un progetto che gli stava a cuore, così da far rivivere lui negli altri. Proprio per questo, per dare una continuità alla sua vita, insieme ai suoi più cari amici che sono i componenti della band della quale era punto cardine, stiamo organizzando un concerto nell’ultima settimana di maggio del 2020». 

Tiziana con il figlio Andrea

Se gli amici erano il punto fermo di Andre, la sua musica, la sua batteria, erano il suo rifugio. Tramite i testi che componeva ci faceva entrare nel suo mondo, lui si esprimeva così, con i suoni aggressivi alternati a quelli dolci del suo strumento del cuore. 

Non poteva essere uno strumento differente da quello a definirlo meglio nelle sue due facce caratteriali. 

La sua dolcezza in contrasto con la sua rabbia, una rabbia intesa come voglia di essere, di affermazione sociale, di affermazione sentimentale e umana. 

Andrea, da ragazzo consapevole di essere stato adottato infatti, ha sempre avuto questa forte necessità di mettere radici, la forte necessità di dare amore, di avere un figlio, o se non avesse potuto averlo in modo naturale, di fare il gesto d’amore per eccellenza, così come Tiziana aveva fatto con lui, adottarne uno! Ho ancora il messaggio in cui mi scriveva: «Nel peggiore dei casi, adotto. Ho sempre avuto in mente di avere della prole per donarle il mio amore incondizionato».

Aveva una purezza di sentimenti invidiabile, disposto a dare la vita per un amico, a dare la vita per salvare anche uno sconosciuto, lo diceva sempre che la sua indole era prima di pensare agli altri e poi a se stesso e, non a caso, ha avuto un ritorno d’amore estremo.

I giorni prima che ci lasciasse, la sua stanza era un continuo via vai di amici. Ricordo che mi scrisse: «Sento che sto andando», ed io sprofondai in un pianto dal quale ancora fatico a riprendermi. Non è un caso che sia io oggi a scrivere di lui, nel nostro gruppo mi consideravano la «mamma di Andre», per l’atteggiamento materno che ho sempre avuto nei suoi confronti, forse è per questo che io e Tiziana ci sentiamo così legate, così unite.

«Mi manca la sua voce, sentirmi chiamare “mamma”. È questa la cosa che mi manca di più ed è per questo che ascolto sempre le sue note vocali sul telefono: mi danno la sensazione che sia ancora qui, perché lui è ancora qui».

Porto la mano destra sulle labbra, quasi a trattenere la mia emozione davanti agli occhi lucidi di questa donna meravigliosa e con la sinistra ci stringiamo le mani in segno di forza.

Forse è così che si sopravvive al dolore per la perdita di un figlio, penso, con la condivisione, l’ascolto, l’empatia.

Il dolore si trasforma, lascia spazio all’amore, l’unico sentimento capace di superare barriere e limiti spazio-temporali. 

La chiave, penso, è questa: continuare ad amare.

Ci salutiamo stringendoci in un lungo abbraccio e mi incammino verso casa. 

 Vorrei però chiudere così: Tiziana, da paziente oncologica vorrei dirti che nei momenti difficili scarichiamo la rabbia su chi sappiamo che non ci giudica e che ci permette di allentare la pressione lì dove è insopportabile, e tu eri il perno della vita di tuo figlio, lui sapeva che al suo «ti odio», non avresti mai creduto. Il suo «ti odio» era come dire «mamma ho paura, non mi lasciare». E tu non l’hai mai lasciato.   

Da figlia vorrei dirti che hai fatto un lavoro meraviglioso con Andrea, e che incarni tutto ciò che io ho paura di non essere mai capace di affrontare: scegliere di essere madre. Chi può procreare naturalmente, spesso non ha cuore e mente sullo stesso livello, a differenza di chi non può farlo naturalmente e sceglie con fermezza di esserlo, allineando cuore e mente verso un obiettivo. Sei stata per me di profonda ispirazione.

Da donna vorrei dirti, grazie per il coraggio e la fierezza di mostrare le tue debolezze senza nasconderti, anzi esponendole al mondo. Perché per vincere la paura ci vuole coraggio, dal latino «cor habeo», «ho cuore», e tu Tiziana, sei puro e profondo cuore.

Un grazie lo voglio dire anche a te, Andre, perché vivrai in me per sempre. Non conoscerti sarebbe stato sicuramente meno doloroso, ma averti conosciuto mi ha arricchito per la vita. 

Ti amerò per sempre.  

GLADIA

Di Cinzia Farina

Gladia è una dolcissima mamma di Gran Canaria, venuta anni fa in Italia. Da allora vive a Milano e ha una avuto una bambina che oggi ha 22 anni e un ragazzo che ne avrebbe avuti 19. Gladia mi racconta del primo incontro con Luca, quando era ancora nella pancia e, al contrario della sorella che ballava il flamenco dentro di lei, lui era tranquillo «si muoveva in punta di piedi per non disturbarmi». Crescendo era un bravo bambino e poi un adolescente rispettoso, con tantissimi amici e un sano attaccamento alla famiglia e alle sue origini. Gladia si commuove quando mi parla del legame che Luca aveva con il nonno materno, ritenendolo il suo supereroe. «Nel periodo della malattia, quando tutti gli dicevano che si comportava come un piccolo eroe, rispondeva che i superpoteri glieli aveva trasmessi il nonno, insegnandogli a sorridere sempre!».

A 14 anni c’è stato il primo ricovero. Gladia parla dei momenti difficili dopo l’intervento, quando Luca si è dovuto staccare per un po’ dal suo mondo, le uscite con i coetanei e la sua grande passione per il calcio, dove giocava a livello agonistico. Tornato con il solito ottimismo alla vita di prima, è stato male di nuovo e hanno scoperto che aveva un tumore al cervello. Da allora è stato ricoverato più volte. «Luca chiedeva ad ogni degenza un anello nuovo, quell’oggetto per lui rappresentava positività, perché guardandolo gli veniva in mente quello ricevuto la volta precedente, sottolineando così che ce l’aveva fatta e che quindi ce la poteva fare ancora».

Nell’aprile 2017 Luca ci ha lasciato. Le chiedo che forza bisogna avere per sopravvivere a questo dolore. La sua forza è pensare che il figlio non vorrebbe assolutamente che lei mollasse: «Lui era un vero guerriero e mi ha lasciato in carico sua sorella, suo papà e i numerosi amici. Tutti contano su di me, i suoi amici mi chiamano spesso e alimentano la mia forza. E poi  ho la possibilità di vivere, quindi non devo sprecare quest’opportunità, devo aiutare gli altri e trasformare il mio grandissimo dolore in qualcosa di positivo». Mi dice che è diventata volontaria di Make-A-Wish e si è riscritta all’Università. «Cerco di fare tutto ciò che posso per riempire il mio tempo, la mia testa, per trasformare il mio dolore…».

Le domando quale sia il suo credo, lei cerca di spiegarmi che le sue  convinzioni sono state messe a dura prova.

Gladia con il figlio Leonardo

 «Ecco, poi però penso che il mio Luca si trova in un universo parallelo, lo sento presente nei suoi amici, quando si trovano in difficoltà pensano a cosa Luca avrebbe consigliato loro, e sapere questo mi aiuta». Sottolinea come Luca, anche nella fase terminale della malattia, cercasse di trovare parole di conforto per gli amici in difficoltà: «Era forte in ogni occasione, perciò non posso essere assolutamente da meno. Sono la mamma di un piccolo guerriero».

Mi parla del bellissimo rapporto che Luca aveva con la sorella e di come Sara sia stata forte per riuscire a non perdersi nel dolore.

Chiedo a Gladia se abbia un consiglio da dare alla mamma di Ale. Lei sempre con quel sorriso dolce e forte allo stesso tempo, comincia con il dire che il lutto ha delle fasi. La prima è la negazione e la rabbia. A un certo punto sopraggiunge la forza dell’accettazione che ti aiuta ad andare avanti. «Cercare di trasformare il dolore in qualcosa di positivo che porti gioia agli altri mi ha dato la forza». Gli occhi di Gladia brillano quando mi racconta dell’associazione Make-A-Wish. «Quando vengono realizzati i desideri dei piccoli pazienti mi sento bene. È la mia vera carica di energia, come quando una macchina non ha più benzina, quello diventa il mio carburante». 

Sono passati due anni da quando Luca se n’è andato. Gladia ci tiene a commentare con questo: «Non voglio però che si crei il club delle mamme tristi, non è questo che bisogna fare, deve essere il “club delle mamme che ne vengono fuori».