di Federica Margherita Corpina, B.Liver
La B.Liver Federica ha intervistato Daniele Mencarelli, autore di Fame d'Aria e padre di un ragazzo autistico. Insieme, ci raccontano una prospettiva sul dolore diversa; il bisogno di unione e la spinta all'isolamento.
«Perché, se la sofferenza pare essere l’unica legge che governa il mondo, vale comunque la pena di vivere e provare a costruire qualcosa?». La domanda risale al suo primo romanzo, La casa degli sguardi. Come risponderebbe, a distanza di tre anni, al Daniele di quello e degli altri libri?
«Di anni, in termini di vita e di esperienza, è come se ne fossero passati trenta. Per cui al Daniele di allora, di oggi, e che spero sarà, voglio dire che la salvezza, in fondo, è pazienza e reciprocità: saper aspettare che il dolore passi, e riconoscerlo negli altri. Questo, dunque, gli direi: condividi il dolore, e abbi fiducia nel tempo».
Tutti i protagonisti dei suoi romanzi, a eccezione di Fame d’aria, portano il suo nome. Cosa gli ha dato, di lei, oltre? E cosa le hanno dato loro?
«Ho dato loro ben oltre la mia biografia, raccontando, attraverso una lente che portasse il mio nome, tutte le storie importanti per me. Ho ricevuto, invece, un rapporto più fluido e pacificato col mio passato, oltre che la possibilità di arrivare a chi, oggi, si ritrova nel Daniele di quei tre libri. La letteratura, d’altronde, è condivisione; mettendo in circolazione il dolore, può farlo apparire un po’ meno mostruoso di quello che è, pur senza sottrargli, come talvolta irrispettosamente si fa, un grammo del suo peso».
Secondo una delle interpretazioni, «Daniele», di derivazione ebraica, significa «Dio è il mio giudice». Chiamo ancora in causa il suo nome per parlare di fede: può dirsi, a prescindere dal suo oggetto, conditio sine qua non di ogni speranza, o ne esiste una tutta immanente a cui valga la pena aggrapparsi anche quando non si ha (più) il coraggio di rischiare, di aver creduto a un’illusione?
«Da una parte, la speranza in una trascendenza non necessariamente prende la forma di un culto preciso; dall’altra, sentire dentro di sé un’urgenza di significato e darle sfogo, è quasi inevitabile. C’è chi soddisfa il proprio bisogno di salvezza in qualcosa di mondano, realizzandosi a pieno in ciò che fa. Altri, invece, tendono a riempire il vuoto lasciato da questa impreteribile domanda con ciò che da sempre l’uomo crea per colmarsi: i “consumi”. Ma ogni individuo sofferente, nel corpo come nello spirito, è portatore di una domanda di significato, di salvezza, che sia anche trascendentale. Poi, è chiaro, la risposta può non essere trovata; ma si possono sì trovare persone che hanno negli occhi la nostra stessa fame, e già questo aiuta a stare meglio».
Che ruolo e che potere assegna all’amore romantico, nella vita e nella sua messa per iscritto? Ha, a suo parere, un potenziale salvifico nella convivenza coi marosi di un disturbo mentale?
«Credo che l’amore romantico, in questo tipo di circostanze, sia una costruzione fondamentale per tenersi aggrappati a terra, specie per chi ha come proprio nemico sé stesso. Almeno finché non si isola; perché, quando lo fa, non resiste al dolore e rischia di diventare piuttosto il proprio contrario. Quello che in assoluto conta di più, quindi, è il supporto di una rete più ampia, di una comunità che sappia parcellizzare il dolore in più persone ed esperienze».
«Tutti i migliori sono matti», questo il segreto che il Cappellaio svela ad Alice. Ma in base a cosa si entra o si esce dalla categoria di «mattitudine»? Come si differenzia questa da una diagnosi? Forse che dietro la sana maschera celiamo tutti una follia in potenza?
«Ogni affermazione cambia di significato a seconda del momento storico in cui la si fa. Per cui quella del Cappellaio, oggi, non può non fare i conti con la consapevolezza che si sono ormai smarriti tanti di quegli elementi della nostra natura che ne facevano qualcosa di molto più instabile, squilibrato, traballante.
La conseguenza è che ciò che poteva essere considerato del tutto normale ai tempi di Alice, come il dialogo con la (propria) natura, appare anomalo e patologico agli occhi della società in cui viviamo, che, paradossalmente, tende a medicalizzare tutto. Bisogna quindi sì difendere la nostra “mattità”, ma anche riportarla entro il confine della nostra natura. “Da vicino nessuno è normale”, diceva Franco Basaglia.
E quello che afferma il Cappellaio è qualcosa di simile: ognuno di noi porta con sé, se ne ha il coraggio, temi di profondo squilibrio. Sono migliori, quindi, tutti quegli uomini che non vivono a loro insaputa, perché i veri matti, oggi, sono quelli che non ascoltano mai il proprio mondo interiore, fingendo di vivere ed essere sani, o normali, che dir si voglia».
La diversità, specie se visibilmente evidente, suscita quasi sempre una qualche reazione. Come non punirsi per la prima, a maggior ragione se spiacevole e da noi stessi ritenuta ingiustamente giudicante? E come concedere, e concedersi, la possibilità di andare oltre?
«È come imparare una lingua. L’uomo analfabeta di fronte a certe visioni di disabilità ha soltanto un modo per renderle più familiari e pronunciabili, ed è non fare di quella disabilità qualcosa che vede una volta ogni tanto. Possiamo scegliere quindi, se allontanarci da ciò che ha provocato in noi disgusto e conseguente senso di colpa, o se renderci disponibili a imparare lingue nuove».
Lei è stato, ed è stato accanto. Basta, di per sé, l’esperienza a saper essere di aiuto a chi continua a confrontarsi con difficoltà che noi, in un modo o nell’altro, abbiamo superato? È sempre necessaria?
«Esistono due tipi di esperienza: quella medico-istituzionale, e quella sviluppata dall’interno e non legittimata da alcun titolo di studio. Ma non sono in competizione tra loro, e la seconda, in particolare, può educare al dolore. I migliori educatori, infatti, sono coloro che conoscono dall’interno certe tematiche. Perché o si fa del proprio dolore qualcosa di condiviso, oppure si vive nell’illusione; specie quando parliamo di malattie psichiatriche di averlo superato per sempre; e non c’è rischio maggiore di farlo tornare.
Renderlo disponibile agli altri, invece, è un modo, pure per noi, di tenerlo sotto controllo. Anche perché il male, rispetto al bene che va inseguito, è più infame, e pretende assolutezza: “io non passerò mai”, ripete, e tocca a noi ripeterci reciprocamente che è una bugia, e che, come ogni altra cosa, per quanto possa essere atroce, è transitorio anche lui».

Curare gli altri per curare sé stessi: una possibile soluzione o un diversivo?
«Credo che l’incontro, più che allontanarci dal nostro male, ci ricentri rispetto ad esso. Esistono persone che vivono e sentono esattamente come noi, e questo per me è di grande sostegno, perché spazza via l’unico demone capace di rendere il male un dittatore assoluto: l’isolamento. Stare con chi ha dentro, come noi, una “bestia che latra” (con le parole di Dario Bellezza) permette di riscoprire l’unità nella moltitudine e di resistere al dolore».
«C’è chi sta peggio di te». Può un’espressione del genere, soprattutto nell’ambito della salute mentale, farsi motore di un cambio reale di prospettiva in positivo, rispetto al proprio male? O rischia soltanto di far leva sul senso di colpa?
«Pronunciare una frase del genere significa non capire e non aver mai vissuto quel male apparentemente senza radici che è il male interiore. Chi ne fa esperienza, infatti, senza che nessuno glielo abbia chiesto, si è caricato il mondo intero sulle spalle, e usare simili espressioni non fa altro che creare distanza, delegittimando certi tipi di dolore».
«Fare uso di sostanze». Prendo in prestito l’espressione per chiederle che uso fa della scrittura. Come e a quali esigenze rispondono, distintamente, prosa e versi?
«Ho sempre scritto per due motivi: ringraziare e testimoniare, e con la consapevolezza che quel mio gesto dovesse essere importante per qualcuno a cui era destinato. La scrittura, d’altronde, è richiesta di ascolto, e quello che inizia chi scrive, lo finisce chi legge. Tante battaglie, oggi, meritano di essere testimoniate; e prosa e poesia vi arrivano diversamente a seconda del grado di drammaticità: come disse Attilio Bertolucci, sono come due amanti che si lavano la schiena».
“al Daniele di allora, di oggi, e che spero sarà, voglio dire che la salvezza, in fondo, è pazienza e reciprocità: saper aspettare che il dolore passi, e riconoscerlo negli altri. Questo, dunque, gli direi: condividi il dolore, e abbi fiducia nel tempo“
– Daniele Mencarelli
