Prof – studenti: come abbattere i muri e parlarsi di più

Prof - studenti: confronto a scuola
Gli amanti, René Magritte (1928)

di Maddalena Fiorentini, BLiver

Ho avuto il piacere di chiacchierare con la professoressa Piera Marchese, che ha insegnato per 40 anni nella mia vecchia scuola, concludendo il suo percorso proprio con la mia classe. Quale miglior ambiente, se non la scuola, per parlare di confronto generazionale?

M.: Per iniziare ho pensato di chiederle a che età avesse iniziato a insegnare e come è cambiato il suo rapporto con gli studenti.

P.: Ho iniziato a insegnare a 28 anni, era il 1985. Ho sempre insegnato l’inglese, che inizialmente veniva considerata una materia secondaria, per cui non riscuoteva molto successo. Paradossalmente, il rapporto con gli studenti è migliorato con il tempo. Un punto di svolta è stato iniziare a usare il nome proprio al posto del cognome per chiamarli. Ogni classe è sempre stata un mondo a sé e con gli anni ho dovuto fare lo sforzo di adeguarmi alle nuove esigenze.

M.: Come ha affrontato questo sforzo? Soprattutto considerando che spesso gli adulti rimangono intrappolati nella loro epoca.

P.: La tentazione è sempre quella di dire: “ai miei tempi era così”, ma non sarebbe giusto, perché non si possono paragonare le nostre esperienze di vita. Voi vivete in un mondo completamente diverso. Noi insegnanti siamo obbligati più di altri adulti ad adeguarci, perché altrimenti diventeremmo anacronistici.

“Confronto generazionale”. Illustrazione realizzata per Il Bullone da Davide Casartelli, Scuola del Fumetto, Milano

M.: Lei ha sempre lavorato in un ambiente che cerca di accorciare le distanze, come vede il confronto generazionale nella società odierna?

P.: Mi rendo conto che spesso da parte degli adulti c’è il rifiuto di accettare certe abitudini di vita dei giovani. Si sbaglia, pensando di sapere tutto. Forse noi adulti commettiamo l’errore di dare giudizi affrettati. I ragazzi, però, hanno la tendenza a non aprirsi completamente, non si lasciano conoscere a fondo.

M.: È come un circolo vizioso da cui non si riesce ad uscire, può essere utile provarci? È possibile abbattere queste differenze?

P.: Il divario c’è, è fisiologico. Certo, idealmente sarebbe meglio che entrambe le parti cercassero di venirsi incontro, anche perché c’è sempre da imparare dagli altri. A me è sempre piaciuto andare oltre al rapporto istituzionale studente-insegnante, basta non dimenticarsi di essere stati adolescenti.

M.: Se l’adulto deve ascoltare, cosa deve fare il giovane per raggiungere questo punto d’incontro?

P.: Anche il giovane dovrebbe ascoltare, anche se per voi è più difficile, perché non vi sentite capiti e tendete a chiudervi nel vostro mondo. Sarebbe bello se riusciste ad essere più aperti e meno rigidi.

M.: Invece, dei suoi 20 anni cosa ricorda?

P.: Erano gli anni 70, anni di contestazione e rivendicazione di libertà. La società stava cambiando, si sentivano fermenti e contrapposizioni, di più rispetto ad oggi.

Quando ho fatto l’università si faceva più politica, ora gli studenti sono più concentrati su sé stessi. Il vostro futuro però, è più incerto, noi non avevamo paura del domani. Sono contenta che i ragazzi oggi pongano molta attenzione ai problemi ambientali. Se fossi giovane ora andrei a manifestare.

M.: In maniera provocatoria le chiedo come mai quel «se fossi giovane» non diventa un desiderio.

P.: Hai ragione, forse, come altri sono nella mia comfort zone. In mezzo a una protesta mi sentirei fuori posto. Credo fortemente però, che la responsabilità nei confronti della comunità sia di tutti.

M.: Mi fa piacere sentire queste parole, infatti vedere un adulto prendere posizione su problemi attuali non ci fa sentire abbandonati ad aggiustare gli errori del passato. A questo punto però, mi chiedo quale sia la sua definizione di «divario generazionale».

P.: Un divario è un vuoto da colmare. Con l’avvento delle nuove tecnologie, negli ultimi anni, si è acuito moltissimo. Infatti, ho sempre avuto molta difficoltà a capire come funzionassero le relazioni tra le persone regolate dalla tecnologia e il gergo. Ogni generazione aveva il suo linguaggio e qualche volta mi trovavo a disagio. È bello, però, pensare che ogni generazione ha la sua storia.

M.: Parliamo ora di aspettative, a 20 anni la società si aspetta tanta energia, esistono queste pressioni alla sua età?

P.: Le pressioni sociali ci sono sempre, ma pesano di più sui giovani. Alla mia età non più, con gli anni una persona si pone meno problemi. Forse è anche giusto che ci siano queste aspettative, così non ci si adagia e si cerca sempre di migliorare.

M.: Se l’aspettativa serve per non adagiarsi e se alla sua età manca, non ha paura di diventare invisibile?

P.: Anche senza aspettative è possibile continuare a sentirsi utili. Io sono in pensione, è chiaro che cambia tutto, ma l’importante è non chiudersi nel proprio mondo.

Bisogna dedicarsi di più agli altri e agli affetti. Personalmente, all’inizio mi sentivo stanca e stufa di fare, poi ho iniziato a prendere piccoli impegni, che sono diventati tutti stimoli, anche se faccio più fatica.

M.: Guardiamo al futuro, cosa vede?

P.: Cerco di essere ottimista, anni fa si pensava che in futuro non ci sarebbe più stata la scuola di una volta, invece il rapporto umano è rimasto e so che rimarrà. Un po’, però, mi spaventa il peso eccessivo della tecnologia nelle nostre vite, ci vorrebbe più consapevolezza. Il rischio altrimenti è quello di avere tante conoscenze, ma poche amicizie.

M.: Forse questo lo sapranno gestire le generazioni future, noi stiamo imparando a tentativi. Come si sente quando torna a scuola?

P.: Diversa, ma contenta. Mi piace sempre parlare con gli studenti, mi manca tanto il rapporto con loro. Ho passato la mia vita a scuola, era una seconda casa. Mi auguro che tutti possano trovare la propria strada e realizzarsi».

M.: Alla fine, abbiamo concordato che a scuola ci passano tante persone, ma si resta sempre tutti studenti. Entrambe ci auguriamo che professori e studenti si parlino di più, la scuola ne ha bisogno.