Successo e fallimento, istruzioni per l’uso

Successo e fallimento

di Edoardo Grandi, B.Liver

Se arrivi primo sei qualcuno, se arrivi secondo sei un perdente.

“Se arrivi primo sei qualcuno, se arrivi secondo sei un perdente.”

Questo assunto, tempo fa appartenente in gran parte a una logica e cultura occidentali, soprattutto americane, in quest’epoca di globalizzazione sembra ormai pervadere molte società.

È un modo di pensare e di fare crudele e ingiusto, che al di là del corretto riconoscimento del merito, vede nella competizione sfrenata con «l’altro» (e spesso la sua sopraffazione) il punto cruciale.

Intendiamoci, non c’è niente di male nel ricercare e raggiungere il successo, ci mancherebbe altro, fa parte di normalissime aspirazioni umane, ma troppo spesso questo si traduce nell’etichettatura di chi non riesce come fallito.

Questo si può applicare a qualsiasi campo, nello studio, nel lavoro, negli sport e nello spettacolo (in questi ultimi due casi il fatto è particolarmente evidente, anche perché di frequente gonfiato dai media), e conduce alla colpevolizzazione di chi non ce la fa, e che a volte si autocolpevolizza con esiti psicologici ed esistenziali anche drammatici.

“Io non perdo mai, certe volte vinco altre volte imparo”

Nelson Mandela
Fallimento, illustrazione di Aurora Protopapa
Così io vedo il fallimento: una parola che racchiude anni di vita nell’illustrazione di Aurora Protopapa.

Ma perché avviene tutto ciò? Forse per l’eccessiva pressione sociale che spinge verso il successo a tutti i costi, come se fosse l’unico valore al mondo. Riuscire bene in qualcosa comporta non solo talento, è ovvio, ma anche costanza, impegno, lavoro e sacrifici, e lo stesso vale anche per chi non «vince», e che non va indicato negativamente come fallito, perché comunque ci ha provato.

Il banale detto «sbagliando si impara» (declinato fino alla nausea nelle sue infinite varianti, come il «solo chi cade può rialzarsi», ecc.), contiene certo qualcosa di vero, perché si può sempre migliorare. Ma forse, di fondo, bisognerebbe avere un atteggiamento diverso, che non confonda quello che si ottiene con quello che si è, abituandoci a riconoscere le nostre qualità così come i nostri inevitabili limiti, e imparando a trovare appagamento nelle cose positive della nostra condizione.