Paolo Cognetti, nei grandi spazi alpini rinascono i sentimenti

Paolo Cognetti (Milano, 1978). Scrittore e documentarista. Tra i suoi libri ricordiamo: Sofia si veste sempre di nero (2012), Il ragazzo selvatico (2013) e Senza mai arrivare in cima (2018). Con Le otto montagne (2016), dal quale è stato tratto il film ancora oggi nelle sale (sopra una scena), ha vinto il Premio Strega, il Prix Médicis étranger e il Grand Prize del Banff.
Paolo Cognetti, autore di Le otto montagne, adattato per il cinema, ci parla dei sentimenti che rinascono in grandi spazi alpini, verticali, duri. A cominciare dall'ingenuità, l’amicizia e la sensazione di ritrovare sé stessi.

di Fiamma C. Invernizzi

Paolo Cognetti, una passeggiata lenta in un tempo senza tempo

L’intervista a Paolo Cognetti, classe 1978, autore – tra gli altri deliziosi scritti – de Le otto montagne, non potevo che desiderarla così, come una conversazione tra i pascoli e le aquile, il vento del disgelo e l’ultimo sole che svanisce dietro vette innevate.

Una passeggiata lenta in un tempo senza tempo, dove l’acqua dei torrenti scorre libera seguendo il volo delle nuvole, dove le migliori chiacchiere si fanno accovacciati su quelle panche di legno che sempre traballano, arroccate davanti a rifugi alpini che attendono incerti l’arrivo di nuove voci, nuovi zaini e nuovi pensieri.

La montagna ha qualcosa di solenne

Ho letto diversi suoi libri – anche più volte – e dentro me risuona la medesima sensazione di quando ascolto il Requiem di Mozart.

So che può sembrare strano, ma la narrativa alpina mi lascia sempre quella sensazione estatica di meraviglia, di solennità e di speranza nonostante tutto, nonostante si tratti pur sempre di un «Requiem».

Un po’ come se nel dialogo tra la rinascita di Pietro e il crollo di Bruno – i due protagonisti del romanzo portato al cinema da Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, Premio della giuria al 75esimo Festival di Cannes – ci fossero presenti momenti di estrema bellezza, di pura nascita e contatto con la morte, con la sparizione, con una montagna che ogni volta qualcosa ti lascia e qualcosa ti prende. È così?

«Sì, capisco. La montagna è anche un luogo di contatto con la morte. La morte che in città è nascosta, confinata tra i muri che abbiamo costruito per proteggerci dalla sua vista, in montagna è presente, è all’aria aperta, la incontri quasi tutti i giorni.

È nella carcassa del capriolo sbranato dal lupo o nel volteggiare dei corvi quando al disgelo spuntano i camosci travolti dalle valanghe. È nelle targhe con i nomi, le date e le foto in cui ti imbatti sui sentieri e sulle cime, nel volo dell’elicottero che cerca un disperso, nei resti che un giorno compaiono in fondo al ghiacciaio.

Ed è in quei piccoli cimiteri di paese, negli annunci sulle bacheche comunali, nelle campane che suonano a morto e nei cortei funebri che attraversano la piazza. Non è una presenza macabra, tutt’altro. La avverto più come una presenza del sacro, dell’ultraterreno.

È perfino bella, a volte. Forse perché intorno c’è tanta grazia e tanta vita: gli alberi del bosco che crescono, i torrenti che scorrono, la primavera che torna tutti gli anni, comunque vada, con la sua tumultuosa fioritura. Ha qualcosa di solenne, come ha detto lei».

Il finale “più perfetto” per chi ama la montagna

Mi chiedo anche: se il libro fosse stato scritto dal punto di vista di Bruno, questo rinascere di Pietro sarebbe divenuto fonte di gelosia o di invidia? Oppure il finale sarebbe stato diverso?

La metafora del «salire in montagna» e dello «scendere a valle» ogni tanto sembra indicare la direzione opposta, come se l’ascesa portasse a sprofondare e la discesa ad elevarsi.

«Dal punto di vista di Bruno, il suo finale non è affatto un crollo o un fallimento. È un martirio, che per la cultura cristiana è tutto l’opposto, cioè sacrificare la propria vita per quello in cui si crede. Penso che anche certi alpinisti sentano così la morte in montagna: il finale più perfetto per chi l’ha amata tanto.

Pietro è un uomo molto più smarrito, senza certezze, e Bruno è soltanto contento della sua rinascita. È lui che l’ha accolto quando si era perso, lui che l’ha sostenuto nel dolore, lui che l’ha aiutato a cercare la sua strada. Quando alla fine gli dice “lasciami a questa montagna e non preoccuparti per me” è anche perché sa che Pietro l’ha trovata, la sua strada, e che adesso può andare avanti da solo».

Paolo Cognetti interpretato da Chiara Bosna

“Per la montagna non era successo niente”

«Per la montagna non era successo niente». Questa frase nel libro ha una potenza incredibile, ricordandoci quanto i tempi geologici siano in grado di accompagnare quelli umani con mutamenti impercettibili e, allo stesso modo, dimenticarsi di noi come minuscoli esseri di passaggio.

Una montagna che cura, ma anche che isola. Quanto per lei la solitudine è compagna e quanto è nemica? Quanto lo è per chi vive in montagna, oggi? E per i suoi personaggi?

«Mi viene da ridere quando leggo frasi come “l’uomo sta distruggendo la Terra”. Siamo arroganti perfino nel valutare il nostro potere su di lei.

«Mi viene da ridere quando leggo frasi come “l’uomo sta distruggendo la Terra”. Siamo arroganti perfino nel valutare il nostro potere su di lei.»

Paolo Cognetti

La realtà è che siamo qui da molto poco e spariremo molto presto, per i suoi tempi. Siamo come i dinosauri o qualche altro strano essere che verrà dopo di noi. In questa nostra breve esistenza ne stiamo modificando un po’ l’aspetto, ma quando saremo scomparsi lei tornerà bella come prima, o anche bella in un modo nuovo, chi lo sa. Magari tutta coperta dall’acqua o dal ghiaccio. Questo pensiero non mi atterrisce per niente, anzi le dirò che mi allieta.

Quanto alla solitudine, l’ho frequentata tanto e credo di conoscerla bene. Conosco i suoi doni: per esempio la scrittura viene da lì. So anche che può diventare una prigione e un luogo in cui ci facciamo male. Ne ho bisogno, ma è anche pericolosa. Quando ci affondo è difficile tirarmi fuori, e a volte me ne tengo alla larga per non rischiare.

Voglio dire anche che stare da solo dentro casa è diverso dallo stare solo in montagna. La montagna non è uno spazio vuoto dove ci sei soltanto tu, non è chiusa da muri. È un luogo aperto, e il suo silenzio in realtà è una nostra sordità: siamo noi che non riusciamo a sentire, lei è un concerto di suoni. Quando impari ad ascoltarli, a entrare in comunicazione con le acque, il vento, l’erba, gli alberi, gli animali selvatici, le rocce, in montagna non ti senti più solo.

La solitudine peggiore che ho provato è quella dello stare tra gli uomini e non poter parlare con nessuno».

“La solitudine peggiore che ho provato è quella dello stare tra gli uomini e non poter parlare con nessuno”.

Paolo Cognetti

L’esperienza del “mondo senza di noi”

Tramite i suoi libri si può dire che si impara ad ascoltare il silenzio, a guardare l’invisibile, perché la montagna è memoria, è il rifugio dei ricordi e custode di tutte le impronte che si sono impresse prima delle nostre.

Però la montagna è anche una mamma ostile, un microcosmo contraddittorio che non sempre ti accoglie a braccia aperte e non sempre si fa raggiungere con la medesima serenità.

Come la montagna ci aiuta a «semplificare»? A tornare alle origini, dando un nome a ciò che è importante e necessario, svestendoci di tutto ciò che in città pare fondamentale ma non lo è?

«Io parlo di montagna perché, da italiano del nord, quello è il luogo in cui ho imparato ad avere un rapporto con la Terra. Intendo la terra non coltivata, urbanizzata, edificata, la Terra come poteva essere “quando l’uomo non c’era”.

Forse è un’illusione quest’idea, ma quando sono in montagna, in certi giorni di bassa stagione, in certi valloni dove non va nessuno perché non hanno alcun interesse turistico, mi sento veramente in contatto con “il mondo senza di noi”, il non umano.

È sempre più rara questa esperienza, sempre più preziosa. Tra qualche anno forse non sarà più possibile e basta. Per me è qualcosa di simile a una fonte miracolosa, alla sorgente stessa della vita».

“Mi piace lo scontro generazionale”

Salire in montagna è sinonimo di ripartenza, metafora di quel coraggio che serve per superare le difficoltà, accogliendole passo dopo passo. Come si sposa questo concetto con l’incontro o lo scontro generazionale? Come può questa fatica mettere in dialogo mondi dalle diverse età e dalle diverse vedute?

«Mi piace lo scontro generazionale, ci vedo un passaggio necessario. Come mi piace l’anticonformismo. Io sono Pietro che nel film dice a suo padre: “Una cosa so, io non divento come te”.

Da ragazzo mi sentivo così: se ero troppo simile ai miei amici, c’era qualcosa che non andava. Dovevo essere diverso. Nella diversità c’ero io».