Il Ministro Stefania Giannini sulla povertà educativa

Il Ministro Stefania Giannina interpretata da Chiara Bosna
Il Ministro Stefania Giannina interpretata da Chiara Bosna

Stefania Giannini, ora Vice Direttore Generale per l’UNESCO, già Ministro dell’Istruzione e Rettore dell’Università per Stranieri di Perugia, auspica che la scuola diventi una priorità nelle agende politiche mondiali.

di Chiara Malinverno

Uno dei motti di UNESCO è l’educazione migliora le vite: ci aiuta a capire cosa si intende con povertà educativa?
«Quando si parla di povertà educativa ci si riferisce alla learning poverty, un concetto che la Banca Mondiale ha introdotto quattro anni fa, in collaborazione anche con UNESCO, per misurare l’effettiva efficacia dell’educazione in certi livelli di scolarizzazione. Precisamente, si parla di learning poverty in merito alla dequalificazione dell’educazione e della sua inefficacia. Si pensi al fatto che nel mondo oggi il 70% dei bambini all’età di 10 anni non è oggi in grado di leggere e comprendere un testo molto semplice. Non si tratta di bambini al di fuori del ciclo scolastico, ma di bambini che sono a scuola e che dovrebbero imparare, ma che in realtà non imparano come dovrebbero».

Che utilità ha misurare la learning poverty?
«La sua misurazione ci permette di conoscere lo stato di salute della scuola nel mondo e di implementare strategie per migliorarlo».

C’è una sovrapposizione fra il concetto di learning poverty elaborato a livello internazionale e la povertà educativa di cui si parla a livello nazionale?
«Nel contesto italiano, quando si parla di povertà educativa ci si riferisce a un concetto più generale, ossia all’incapacità del sistema educativo di compiere la sua missione fino in fondo. In generale, oggi vediamo come molti alunni non riescano ad acquisire le competenze di base, pur essendo regolarmente inseriti nel ciclo scolastico a causa delle disuguaglianze sociali».

Povertà educativa in Italia

Veniamo alla pandemia in Italia, ha acuito la povertà educativa?
«Vorrei fare una precisazione terminologica. Quando ci si riferisce al periodo della pandemia è più corretto parlare di crisi educativa più che di povertà educativa. Se guardiamo ai dati, che sono il nostro termometro per misurare lo stato dell’educazione nel mondo, ecco questi ci mostrano come la temperatura fosse molto incandescente già prima della pandemia».

Si può dire però che la pandemia abbia peggiorato la situazione?
«Senza dubbio. La pandemia è stata una situazione estrema che ha richiesto misure estreme e soluzioni alternative. Per molti, la soluzione alternativa è stato il ricorso alle piattaforme digitali, che però non sempre ha consentito la continuità del rapporto tra classe e insegnanti, considerando che non tutti hanno accesso alla connettività. Inoltre, la pandemia ha determinato la mancanza del rapporto socio-emotivo, fondamentale nel contatto educativo che è un processo di reciprocità fra insegnante e studente: gli studenti non sono scatole vuote da riempire».

Però, le piattaforme digitali sono state, almeno in parte, un valido alleato…
«Sì, anche se dobbiamo mettere in conto che circa la metà del mondo non ha l’accesso alla connettività, quindi quella metà del mondo è rimasta tagliata fuori. È vero poi che i governi si sono ingegnati in soluzioni creative, valorizzando risorse diverse come la radio o la televisione, ma sta di fatto che circa un miliardo e 600 milioni di studenti sono rimasti fuori dalla classe tradizionale per un periodo che varia dai due anni dell’America Latina alle tredici settimane della Francia».

Neanche a dire che questa lontananza dalla scuola ha avuto un impatto sull’educazione dei bambini.
«Torno all’indicatore da cui siamo partiti. Se prima della pandemia, il 57% dei bambini di 10 anni si trovava in condizioni di povertà educativa, senza saper comprendere un testo semplice, oggi, stando ai dati del report The State of Global Learning Poverty: 2022 Update, questo dato è aumentato fino a raggiungere il 70%. Questo mostra chiaramente come la pandemia abbia determinato una crescita importante delle diseguaglianze già presenti, in particolare nei Paesi a basso-medio reddito, dove la povertà educativa è aumentata di un terzo a causa della pandemia».

Il Ministro Stefania Giannina interpretata da Chiara Bosna
Il Ministro Stefania Giannina interpretata da Chiara Bosna

La tecnologia per la scuola

Ora però che la pandemia sembra dare tregua ha senso abbandonare del tutto quelle soluzioni alternative che abbiamo sperimentato durante la pandemia, in primis la DAD?
«Sarebbe miope e antistorico non vedere nella tecnologia parte del futuro della scuola. Sono convinta che la tecnologia possa diventare un alleato straordinario nelle mani di insegnanti ben preparati, in un sistema scolastico ibrido, dove la tecnologia non va a rimpiazzare la scuola tradizionale, ma la integra. Bisogna poi ricordare che la tecnologia va utilizzata in modo responsabile ed è in questo senso che va la prima storica raccomandazione sull’uso etico della dell’intelligenza artificiale approvata lo scorso anno dall’ONU».

Quindi è sbagliato vedere nella DAD un nemico, come sembra accadere in Italia?
«In Italia, si è spesso portati a una polarizzazione, come anche in questo caso. Invece, la scommessa è essere in grado di prendere le lezioni positive lasciate dalla pandemia e trasformarle in un principio di innovazione che metta gli studenti e le persone al centro».

Cosa significa mettere le persone al centro?
«La scuola ha come suo obiettivo primario permettere alle nuove generazioni di formare la loro libertà di coscienza e di pensiero, fornendo gli strumenti per costruire una propria visione del mondo, attraverso lo sviluppo del proprio potenziale cognitivo, emotivo e umano. La lotta al cambiamento climatico richiede misure e politiche molto specifiche, ma già la scuola deve essere in grado di suscitare nei propri studenti la consapevolezza dell’importanza del contributo di ciascuno, alimentando la responsabilità di ognuno. Se per il nord del mondo il cambiamento climatico significa ponderare l’uso dell’acqua, per Paesi dell’Africa Subsahariana significa dover spostarsi per chilometri per raggiungere il primo pozzo».

Riusciremo a raggiungere l’obiettivo 4 dell’agenda dell’ONU?
«Se avessimo continuato a perseverare nelle pratiche del passato, sarebbe stato un obiettivo molto difficile da raggiungere, ma modificando le nostre strategie resta un obiettivo raggiungibile. In questo senso si sta muovendo anche Transforming Education Summit guidato dal segretario generale dell’ONU Guterres, che ha lanciato ai capi di stato questo appello molto forte “o si cambia e si trasforma o l’obbiettivo 4 è irrealizzabile”».

Quali sono i possibili ostacoli? In che direzione devono andare queste nuove strategie?
«Il principale ostacolo è che ancora molto spesso l’educazione non entra nelle agende di governo come una priorità assoluta. Avere la scuola come priorità significa investire su di essa, assumendo insegnanti qualificati, dando alla scuola infrastrutture adeguate e consentendo a tutti un accesso alla connettività. Ricordiamoci poi che investire nella scuola significa investire nel lavoro, che ora più che mai implica una formazione continua e costante».