Turismo sanitario e diritto alla salute su tutto il territorio

Credits: Jesse Orrico
Credits: Jesse Orrico

La qualità del diritto alla salute vede ancora grandi differenze tra nord e sud. Questo genera un fenomeno che possiamo chiamare turismo sanitario

di Margerita Luciani

Tante volte pensiamo a come ci piacerebbe che fosse la realtà sanitaria e tante volte i nostri desideri si scontrano con la realtà e tutte le nostre aspettative svaniscono in un attimo.
Vorremmo che il diritto alla salute avesse la stessa qualità in tutto il territorio nazionale e invece non è affatto cosi: la qualità del diritto alla salute vede ancora purtroppo, grandi differenze tra nord e sud, tra zone urbane ed extra-urbane: le aree di eccellenza sono distribuite a macchia di leopardo sul territorio nazionale, con centri di altissima eccellenza in alcune aree e con assoluta assenza di servizi in altre.

Un esempio sono i centri di oncologia altamente specializzati per tumori rari che hanno principalmente sede nelle grandi città, e principalmente a Milano. Questo genera un fenomeno che possiamo chiamare turismo sanitario e che costringe milioni di italiani a spostarsi dal centro-sud al nord in cerca di cure adeguate o migliori. Io personalmente rappresento un’esperienza tangibile e concreta di questo turismo sanitario sin dalla mia infanzia.

Credits: Robina Weermeijer
Credits: Robina Weermeijer

Turismo sanitario e diritto alla salute

La prima volta che venni a Milano fu quando avevo otto anni, perché mio papà si era improvvisamente ammalato di leucemia e non poteva curarsi in Toscana dove non c’era una struttura che si occupava di trapianto di midollo, l’unica chance di sopravvivenza per lui. La seconda volta che sono arrivata a Milano è stata ormai ben più di dieci anni fa per far curare entrambi i miei genitori affetti da due tumori rari che non potevano curarsi vicino a casa. Il turismo sanitario è tutt’altro che piacevole, significa stare lontano da casa e dagli affetti. Per me turismo sanitario ha significato rinunciare all’abbraccio di mio papà dopo la chemioterapia, ha significato trascorrere tanto tempo affidata ad altre famiglie, ha significato trascorrere tanto tempo nelle stanze di ospedale perché nessuno poteva occuparsi di me, perché non c’erano amici o parenti vicini. Per me ha significato lasciare la mia casa con i miei oggetti un giorno d’agosto in tutta fretta e ritornarci dopo un anno e mezzo. E ha significato anche molte altre cose che ancora non riesco neanche a verbalizzare.

Ecco, per tutte queste ragioni e per molte altre, la mia speranza e il mio desiderio è che si possa giungere a una qualità di servizi sanitari più omogenea su tutto il territorio nazionale, in modo che nessuno debba mai più vivere una sofferenza sulla sofferenza, sperimentando la malattia lontano dal proprio contesto familiare, amicale e sociale.

Oltre a questo aspetto, è importante secondo me anche lo sguardo dell’altro rispetto alla salute: nello sguardo dell’altro ci formiamo e ci creiamo, dello sguardo dell’altro ci alimentiamo e nello sguardo dell’altro ci riconosciamo e ci evolviamo. Pensiamo al bambino che guarda la sua mamma o al genitore anziano che guarda il figlio, pensiamo alla connessione che si genera nella relazione con l’altro. Ecco, questo sguardo amorevole che nutre, sarebbe bello poterlo ritrovare anche negli operatori sanitari che si prendono cura di noi, proprio perché possiamo sentirci supportati nel modo in cui abbiamo bisogno, cioè come esseri umani. Proprio perché possiamo essere visti come persone, come esseri umani che si incontrano con l’altro. Vi faccio un esempio. Una volta cercavo una terapeuta per me e mi è stato detto «vai da quella terapeuta, è specializzata in traumi» e io ho risposto: «grazie ma ne preferirei una specializzata in persone»: ecco, questa mia risposta è assolutamente emblematica di quello che penso su come la sanità dovrebbe essere, e cioè un confronto e un incontro tra persone. Mi piacerebbe concepire l’ospedale non come un luogo prettamente fisico, ma piuttosto come un luogo dove persone accolgono altre persone in un clima familiare e aperto all’incontro e al confronto.

Credits: Annie Spratt
Credits: Annie Spratt

Comunicazione della diagnosi

In questo contesto, la diagnosi e la sua comunicazione merita due parole in più: spesso mi sono trovata di fronte a situazioni emotivamente molto dolorose e scioccanti perché la diagnosi non era comunicata con il tatto e la delicatezza che merita. Per esempio, la comunicazione di diagnosi a mia mamma a cui ho assistito è stata: «è un tumore gravissimo al pancreas, se non si opera muore in qualche giorno». Cosi, né più né meno. Davvero. Pochi secondi, parole densissime che hanno cambiato la storia dei miei genitori e la mia, per sempre. Sarebbe stato bello che chi le ha pronunciate si fosse reso conto del fatto che con quelle parole stava delineando una realtà nuova e diversa, angosciante e terribile che avrebbe cambiato definitivamente il corso della nostra storia. Ecco che la salute che vorrei passa anche attraverso un’adeguata comunicazione della diagnosi, che dovrebbe essere comunicata con delicatezza, tenendo in conto dei vissuti di chi la riceve e supportando il paziente e i familiari in un momento estremamente difficile.

Altre frasi che spesso sentiamo ripetere dai sanitari suonano come «non si va a vedere su google la diagnosi», oppure «è il medico che decide»: ecco, penso che queste frasi e tutte le premesse che ci stanno dietro siano profondamente sbagliate. Sì, perché limitano il senso di autodeterminazione del paziente, che prima di tutto è un essere umano con un’esperienza, con un vissuto e con un pensiero: se è giusto riconoscere all’operatore sanitario tutta l’autorevolezza che gli compete in materia sanitaria, è altrettanto giusto riconoscere al paziente di essere il principale esperto e conoscitore della sua stessa esperienza corporea, psichica e di vita, ragione per cui è importante che possa scegliere liberamente cosa sente più giusto per sé in accordo con gli operatori sanitari. Quello che auspico per il futuro è che sanitari e pazienti possano mettere in atto una danza di premesse, un incontro tra significati diversi da negoziare insieme per giungere al bene del paziente, che dovrebbe essere sempre l’interesse più alto di un sanitario.