Sara racconta la paura di prendere peso. Oggi vivo il presente, punto sull’Amore che c’è
di Sara Aiolfi
«Colui che non ha imparato a dire: “Lei e nessun’altra”, sa forse cos’è l’amore?».
Vorrei iniziare questa mia storia con una frase che significa molto per me. Non fraintendete: non è riferita a nessuna persona in particolare, e questo perché è riferita a me stessa.
Anche van Gogh nel 1881 aveva compreso quanto l’amore, sia interiore, cioè verso sé stessi, che verso l’altro, potesse fare la differenza anche sulla qualità e sulla prospettiva di vita. L’amore è stato un po’ ciò che ho trascurato durante tutto l’arco di tempo fino ad oggi. Adesso sono una persona diversa, ma ci terrei a ripercorrere con voi il mio passato, senza vergogna o sensi di colpa. Il passato non si può cambiare, perciò quel che è stato rimane tale.
Partiamo dall’inizio di tutto il casino che c’è nella mia testa. All’età di 18 anni, l’estate del mio compleanno, ero in montagna, ed è proprio lì che ho cominciato ad addentrarmi nel tunnel dell’anoressia nervosa. Da allora, fino alla fine del mio percorso, i ricordi sono molti confusi e annebbiati. Ricordo però la paura di prendere peso, delle calorie, della bilancia. Era diventato tutto e per tutto un’ossessione, tanto che mi sono salvata solo il primo dicembre dello stesso anno, contrariata ma ormai al limite delle mie forze fisiche e mentali, con l’entrata al pronto soccorso dell’ospedale di Niguarda, a Milano.
Ecco, proprio lì e proprio nel momento in cui mi hanno messo il sondino e mi hanno attaccata alle flebo, ho compreso che ero davvero malata e che dovevo lasciarmi aiutare. Non nego che quell’anno e mezzo di day hospital, avanti e indietro da casa, è stato stancante e pieno di lacrime versate. Ma non finisce qui: ahimè, quel tempo non mi bastò per guarire, perciò andai in una comunità per il successivo anno e mezzo. Anche lì stavo male, ma non pensavo a stare bene per me stessa (non sapevo nemmeno cosa volesse dire amarsi e volersi bene), tutto era in funzione del bene della mia famiglia e per non creare più disturbo a nessuno di loro. Sta di fatto che alla fine, tra alti e bassi, riuscii ad uscire e mi sembrava di sentirmi meglio, ma quel «meglio» non durò nemmeno due giorni.
Mi era servito quel percorso, ma non provando per me stessa l’amore che avrei dovuto, quel lavoro non aveva dato tutti i frutti sperati. Così passarono i mesi e cominciai con le abbuffate, finché l’amore verso un’altra persona prese il sopravvento sulla malattia. Credevo che essere amata, automaticamente mi avrebbe fatto amare anche me stessa. Niente di più finto. Esatto, era solo tutta una menzogna, come quando crediamo che siano reali i giochi di magia. Il mio blackout mentale è successo la notte di Natale, una crisi di quasi un’ora e mezza di durata.
Con il termine «crisi» intendo il non riuscire a respirare pienamente, il fatto che dalla mia bocca uscivano solo parole sconnesse che il mio subconscio pensava davvero, il piangere così disperatamente da non capire nemmeno chi avevo vicino a me, ma la cosa più brutta era vedere scorrere nella mia mente immagini che volevo cacciare a tutti i costi, ma più ci provavo, più loro ritornavano più forti e più intense.

Dopo il primo episodio, a gennaio si aprirono le porte dell’inferno: le crisi cominciarono a peggiorare, a crescere d’intensità e di durata, oltre che a succedersi ogni singolo giorno da lì in poi. Inoltre le forze cominciarono a mancarmi, come quando una pianta non viene più annaffiata. Sono arrivata a non riuscire più a camminare, ed ero ormai immobile sul mio letto, con lo sguardo perso, a vedere la mia vita scorrere di fianco senza poterla neanche sfiorare con le mani. Ormai non pensavo ad altro che all’autolesionismo e a rendere reali tutte quelle immagini nella mia testa, tra cui i tentativi di suicidio.
Ricordo un evento che mi ha spaventata moltissimo: era notte piena e io stavo sognando, in particolare vedevo un uomo che mi diceva: «salta da quel muretto che vedi di fianco a me e starai meglio». Dopo quello ricordo solo di aver aperto gli occhi e di essermi trovata in cucina, davanti alle tapparelle tirate giù. Potete immaginare cosa sarebbe successo. A un certo punto credevo che non avrei retto un solo giorno in più la pressione di vivere in quel modo. Poi arrivò quella chiamata, la mia ancora di salvezza: l’ospedale Maria Luigia di Parma aveva deciso, dopo mesi di attesa, di farmi entrare in ricovero per circa un mese o poco più.
Sono entrata il 28 aprile e da lì ho dovuto mettermi faccia a faccia con i miei demoni interiori. La prima settimana non sono uscita mai dalla stanza: ero arrivata al punto in cui pensavo «non mi posso fidare di nessuno, non devo più legarmi a nessuno». Quando ho messo il naso fuori ho cominciato a percepire vibrazioni positive nonostante fossi in un ambiente psichiatrico: ho cominciato a vedere persone reali che, come me, stavano lottando a tutti i costi per vivere, e persone che, nel loro possibile, cercavano di aiutarci. Erano tutte meravigliose, ognuna con il proprio passato e le proprie particolarità, ma tutte unite dallo stesso pensiero: stare meglio.
Non posso negare che all’inizio non mi sentivo parte di loro, avevo perso la mia battaglia più volte e non sarei riuscita, mi dicevo, a combatterne un’altra. Questo finché la psicoterapeuta di Maria Luigia non mi illuminò attraverso una metafora: «esistono i tuoi binari, quelli su cui il tuo treno può viaggiare, quei binari della vera te stessa; poi esistono degli altri binari, quelli degli amici, dei ragazzi, della famiglia. È accaduto che tu hai messo tutto nel primo binario e, dimenticandoti di questo, quando è crollato l’unico binario su cui potevi correre, ti sei sentita persa e vuota».
Quando sono finalmente uscita dopo 40 giorni, mi è stato diagnosticato il disturbo di personalità borderline. Da allora ho capito come mai mi sentivo sempre sul filo del rasoio, oscillando continuamente tra il bianco e il nero, luce o tenebre.
Il grigio non esiste, così come, per me, non esiste la via di mezzo anche nella vita reale.
Ma questa sono io: averne acquisito più consapevolezza mi ha fatto comprendere che non sono «strana», ma che ho un disturbo che può essere controllato. Oggi la mia vita è questa, e non la cambierei per nulla al mondo: quello che ho passato lo so solo io, ed è ciò che mi ha aiutato a crescere. Quindi, alla fin fine alla domanda iniziale ho dato una risposta? Forse sì, di quel puzzle che è la mia vita forse sistemerò i pezzi. Il futuro? Chi può dirlo? Ma ora il presente è ciò che conta, cercando di cogliere le sfumature, come quelle che vediamo nel cielo.