Intervista Impossibile a Catherine Spaak, interpretata da suo cognato e giornalista Antonio Ferrari
Quando parliamo di Catherine Spaak, ci viene in mente la classe, il talento, la bellezza. A soli 15 anni hai stregato il registra Alberto Lattuada e con lui il pubblico maschile e femminile. Nel 1964 hai ricevuto il premio come miglior attrice al David di Donatello per il film La noia.
Qual è il tuo segreto?
«La grinta, il coraggio, l’essere anticonvenzionale in quel periodo mi rappresentavano in maniera totalitaria. Era l’Italia dal boom economico, degli anni 60 in cui il cinema italiano proponeva capolavori, e cominciava lentamente anche a mostrare personaggi femminili diversi dal passato. Sentivo di essere diventata un caso cinematografico contemporaneo: intere generazioni andavano a vedere i miei film anche più volte. Una sorta di simbolo dell’oggetto del desiderio di quel mondo maschile che cominciava a perdere certezze. Le coetanee cercavano di emularmi, trovavano in me la sfrontatezza di una gioventù che aveva fame di vita, voleva rompere gli schemi».
Il Sorpasso di Dino Risi, manifesto dell’Italia di quel periodo, ti impone al cinema come un caso cinematografico per l’epoca. Diventi l’incarnazione di una fantasia maschile, sempre però con l’eleganza intrinseca di classe e assenza di volgarità. Cosa ne pensi del modo di vestire delle adolescenti oggi?
«Le ragazze di oggi forse non vestono sempre con un abbigliamento appropriato al luogo, non vedo spesso quella ricerca accurata dello stile giusto per l’occasione. Comunque, credo che in linea di massima lo stile o ce l’hai o non ce l’hai, è costante, si mantiene per tutta la vita; mentre la bellezza non è statica, conosce l’usura o il vantaggio del tempo, e può essere migliorata con una maggior consapevolezza e sicurezza in sé stessi. So di avere stile, come so di avere anche raccontato alcune bugie, una in particolare, che io e mia sorella Agnes, una persona molto buona, sapevamo non essere vera: “Mio padre ci aveva messo su uno sgabello e proposto di lanciarci giù, intanto lui ci avrebbe preso tra le braccia”. Agnes si è rifiutata dicendo di non fidarsi, io invece l’ho fatto. Sono caduta per terra con mio padre che sottolineava come quello fosse stato un insegnamento per sottolineare che nella vita non bisogna fidarsi di nessuno».

Nei tuoi occhi, anche se sorridono, si intravede un po’ di solitudine. Com’è stata la tua infanzia?
«All’apparenza eravamo due sorelle felici, dei punti di riferimento in Francia; la nonna era presidente del Parlamento belga e lo zio ministro degli Esteri. Mia madre era molto concentrata su sé stessa e mio padre spesso non era a casa, e quando c’era, si divertiva a fare scherzi cinici a tutta la famiglia. Io e mia sorella siamo state per anni in collegio e il successivo trasferimento in Italia ha coinciso con il divorzio dei miei genitori. Per un lungo periodo ho fatto psicoterapia, e nel percorso di cura anche la scrittura mi ha aiutato molto. Ho sempre avuto paura della solitudine, ma quando ho scelto di essere sola non è successo niente di tutto ciò che temevo. Eppure rimane ancora in me questo timore…».
Nella tua vita cinque grandi amori e quattro matrimoni, sei mai stata veramente felice?
«La vera felicità penso sia un’altra cosa. Ho avuto un’esistenza straordinaria, ma ero troppo presa da me stessa (o credevo di esserlo) per ascoltare di più il mio cuore, avevo la convinzione un po’ egocentrica di non commettere mai errori. La felicità vera, a parte il successo, non l’ho mai cercata con determinazione, all’inizio non ne sentivo il bisogno. L’autostima era così forte che non avvertivo la necessità di altro; ho perso forse di vista alcune direzioni importanti della vita. L’introspezione fatta nel mio percorso personale, evidenzia che non ho mai superato le ferite del mio lungo periodo in collegio e il non riuscire per anni a ricucire il rapporto con mia figlia Sabrina. Mi sono ritrovata caricata in questi ultimi anni, di piaghe personali e sanitarie pesanti, ma ho cercato, grazie all’aiuto di mia sorella Agnes, di riavvicinarmi a Sabrina e all’altro mio figlio, Gabriele. Ho aperto gli occhi sui miei errori forse troppo tardi, in un momento della vita difficile, ero quasi impreparata».

Negli anni 80 ti sei presa una pausa, sei rimasta lontano dalle scene, diventando giornalista e autrice di alcuni talk-show, nonché presentatrice del famoso Harem, come mai questo cambio di direzione?
«Grazie al giornalista Antonio Ferrari, amico e compagno di mia sorella Agnes, sono diventata giornalista e ho iniziato per il Corriere della Sera a intervistare personaggi della politica e della società. Dal Corriere sono passata alla televisione e ho avuto successo con quattordici edizioni di Harem. Una trasmissione definita “elegante“, dalla critica, dove le donne raccontavano la loro storia. I temi spaziavano dall’alcolismo alla fedeltà, dal coraggio alla seduzione, e forse per una mia ragione personale, alcune mie domande erano inerenti a come era stato nell’infanzia il loro rapporto con i genitori».
Due anni fa l’emorragia cerebrale, che hai raccontato spesso in televisione con coraggio: ha cambiato qualcosa nel tuo modo di pensare?
«Dopo tante delusioni ho imparato a non attendermi nulla dagli altri, ho stabilito un rapporto particolare con la natura, con gli animali. Mi ripeto spesso che se fossi stata più malleabile sarei stata certo più felice».
Hai qualche consiglio da dare ai ragazzi di oggi?
«Cercate di essere voi stessi e inseguite la libertà. Io l’ho sempre ricercata, anche se a volte non ci sono riuscita. Invece voi ragazzi di oggi siete molto più avanti rispetto a noi. Inseguite sempre la vostra verità personale, fate solo ciò che vi fa sentire liberi».