Nicolai Lilin educazione alla guerra in Ucraina

Nicolai Lilin un incotnro che vorresti non finisse mai al Bullone, per due ore e mezza, toglie il fiato, ci catapulta in un altro mondo…

di Paola Gurumendi

Uno di quegli incontri che vorresti non finissero mai, quello con Nicolai Lilin, lo scrittore russo di Educazione Siberiana al Bullone per due ore e mezza toglie il fiato, ci catapulta in un altro mondo, che purtroppo oggi sentiamo vicino più che mai. Ha 42 anni Nicolai, ma contiene infinite vite dentro di sé. Quella del bambino cresciuto nell’attuale Transnistria, nella paradossalmente tranquilla comunità criminale, in cui la violenza dei codici è mescolata all’esperienza dei valori della vita in comune, fatta di condivisione, accoglienza, libertà, la ricchezza che nasce da una società multietnica, il valore umano al centro, la passione per la lettura, per l’ascolto, per la narrazione.

E poi arriva il crollo dell’Unione Sovietica, lo scoppio della guerra civile che tutto ribalta. Il nazionalismo ideologico, la paura, la fame, la propaganda, l’odio indotto per chi è altro da te: «quando qualcuno ci dice che dobbiamo odiare una persona in base alla sua appartenenza, è solo perché è interessato a sfruttare, manipolare una situazione e poi dopo ci distruggerà». A 18 anni l’arruolamento obbligatorio lo proietta alla vita da cecchino nella guerra di Cecenia, faccia a faccia con la morte. «Io ero contrario alla guerra da quando avevo 12 anni, da quando nella mia città sentivo i primi missili cadere, vedevo i morti, i feriti».

Nicolai non avrebbe voluto arruolarsi, ma la cultura russa è diversa da quella occidentale. «Fin dall’asilo la propaganda ti inculca l’idea che un uomo deve servire la propria patria, e così inizi inconsciamente a identificarti come un difensore del Paese. Esiste anche una festività, il 23 febbraio, in cui questo ruolo viene celebrato. A scuola studiavamo un manuale per imparare le tecniche militari. Allo stesso modo, già in addestramento non credevo a quello che ci raccontavano. Conosco bene l’Islam, mio fratello è musulmano, ma loro strumentalizzavano il racconto, per portarci a odiare, a giustificare la guerra».

Quando capisce che la Cecenia sarebbe stato il suo campo di battaglia, Nicolai prova a scappare, due volte. La prima volta il suo capitano cerca di convincerlo con il senso del dovere: «anche se tu non vuoi fare delle cose, il popolo ha bisogno di te. Lo devi fare per loro». Quando tenta di fuggire una seconda volta, lo stesso capitano lo porta al carcere militare. Lì capisce che ai disertori spetta l’azzeramento totale come essere umano. Non ha alternative. Così inizia la vita di Nicolai sergente maggiore, cecchino. È lui il primo che deve uccidere per non essere ucciso; ma è anche lui il primo a cercare di restare umano, nonostante tutto. Usando la sua curiosità, la sua cultura, il suo senso di libertà, ascoltando, parlando, cercando risposte, cercando di trattare l’altro con rispetto.

guerra in ucraina
Guerra in Ucraina

Nicolai Lilin e l’esperienza in guerra

«Durante la guerra la mia visione sulla morte non è cambiata. Ho vissuto situazioni difficili; tra i “nemici” ho conosciuto tanti ragazzi della mia età, ci raccontavamo le nostre vite, imparavo tanto dagli altri. Ma allo stesso tempo vedevo il male. I civili uccisi, le lapidazioni per strada. Ricordo una madre che non voleva lasciar andare il suo bambino morto. Ricordo Jaar, un ragazzo ceceno di 19 anni, ci aiutava come guida. Gli chiesi perché stava dalla nostra parte. Mi raccontò che suo padre e i suoi fratelli erano morti in quelle guerre «quando ho dovuto prendere le armi, ho deciso di stare con voi perché voglio che questa cosa finisca» disse. Portava sempre dietro un libro di poesie, voleva andare all’Università. Ricordo una città distrutta dai bombardamenti. In un edificio trovammo un missile inesploso. Non era stato inserito, per scelta, il detonatore. Sull’arma la frase «scusate, ho evitato come ho potuto». Ho deciso di finire i due anni di leva obbligatoria, portavo a termine i compiti, ma continuavo a pensare che nessun umano meritava la morte».

Nicolai, ma come può essere che continuiamo ad ammazzare?

«Ne ho parlato a lungo con Gino Strada. Lui era contro la guerra, perché l’ha vissuta. E anche io sono così. Ma anche la letteratura mi ha sempre aiutato a capire che la guerra fa schifo, penso a Erich Maria Remarque con Niente di nuovo sul fronte occidentale e Vita in prestito. Il problema è che ci sono persone che pensano ancora che la guerra risolva le cose. La guerra è una cattiva madre. Ci sono persone che ci guadagnano con la guerra. Ho vissuto 5 conflitti e posso dire che le guerre finiscono tutte con un accordo. Per evitare i massacri usiamo la diplomazia, non le armi! Sono critico verso la nostra società occidentale. Per anni siamo stati sordi e miopi verso i messaggi dall’Est; continuiamo a non capire chi è Putin. Una persona complessa, traumatizzata, che ha vissuto delle metamorfosi terribili. Non possiamo liquidare la sua figura con delle semplificazioni. Siamo in guerra ora, ma questo va avanti da anni. Perché non abbiamo iniziato a muoverci prima a livello diplomatico? Perché ci vuole volontà e la capacità di applicare potere su scala internazionale. La tragedia dell’Europa è che non abbiamo politici forti, né indipendenza. Non parlo solo della dipendenza energetica dalla Russia, ma anche culturale, dall’egemonia statunitense. Siamo tra incudine e martello».

Guerra, guerra e ancora guerra. Come si fa ad andare oltre, a credere alla vita, ancora? Nicolai, nonostante tutto, ci parla della forza, della bellezza, dell’amore, della tenerezza, delle relazioni. Forse tutti noi, come gli consiglia uno psichiatra per superare il disturbo da stress post traumatico una volta lasciato l’esercito, avremmo bisogno di ricominciare dalle cose semplici, come prendersi cura di una pianta, dandole un nome, facendola crescere e parlandole amorevolmente tutti i giorni.  Nicolai ha avuto il coraggio di non lasciarsi andare alla follia, alla violenza, al sangue. Di superare l’incubo e di sentirsi nuovamente parte di una vita «normale» che lui ritrova in Italia, come scrittore, come tatuatore, ma, soprattutto, come padre, come amico, come uomo.