«Ho sempre pensato che sia fondamentale evitare di compiere degli atti contro l’uomo. Credo che al di là di ogni fede religiosa sia sufficiente, ma anche essenziale, questo codice di condotta per essere a buon punto. È una morale semplice, che porta a non commettere quello che io considero il peccato capitale».
Pensa che la cultura sia al di sopra della guerra, o che la guerra nasca proprio dalla mancanza di cultura? Come può oggi essere permessa una cosa simile?
«Davanti a quest’ultimo conflitto abbiamo avuto tutti la stessa reazione di incredulità, è talmente primitivo il concetto di guerra che non lo riconosciamo più. Ci sembra impossibile che sia praticato. Per anni abbiamo vissuto nascosti nell’illusione del cosiddetto primo mondo, credevamo che facendone parte fossimo tutelati dal benessere. Quando è arrivato il covid ci siamo resi conto di quanto la corazza, data dal progresso della scienza e dalla ricchezza, che pensavamo ci tutelasse, fosse in realtà molto fragile, e con la guerra adesso succede la stessa cosa.
Sono molto colpito dalla rapidità con cui siamo passati da uno stato di pace a uno stato di guerra. Con questo conflitto stanno andando in frantumi quelle costruzioni di garanzia che i nostri padri hanno messo in piedi con grande fatica nei settant’anni di pace. Starà a noi, una volta finita la guerra, ricostruire delle istituzioni, un metodo di confronto e di pace. Abbiamo smarrito il concetto comune e universale di cosa è giusto e cosa è sbagliato, di cosa è bene e di cosa è male; ed è per questo che la forza, agli occhi di qualcuno, può sostituire il diritto».
Russia, democrazia e informazione
Crede che dopo questa guerra l’ordine del mondo che abbiamo conosciuto fino a oggi cambierà? La Russia resterà un ponte con l’Europa o sarà sempre più vicina ai Paesi asiatici?
«La Russia ha sempre avuto, per la sua estensione, una doppia natura europea e asiatica, ma è evidente che dovrà riprendere i dialoghi con l’Unione, perché non può farne a meno e allo stesso tempo noi non possiamo fare a meno della Russia; fosse anche solo per il deposito di cultura, lo scambio di relazioni culturali che c’è sempre stato tra i due continenti. Prendiamo atto tuttavia che la bellezza, la forza della letteratura e dell’arte non ci hanno protetto da questa guerra, così come non l’hanno fatto nel ‘900. L’Europa era la terra della bellezza, eppure questo non ci ha salvati dall’aver generato due sistemi dittatoriali che poi hanno insanguinato il mondo con la seconda guerra mondiale».

Nel suo ultimo libro Lo scrittore senza nome lei tratta il tema dell’importanza delle parole. Quanto contano le parole oggi se dall’altra parte c’è un carro armato?
«Le parole forse non possono fermare il carro armato ma lo possono giudicare. Possono dare un nome a quello che accade, ed è per questo che il potere russo impedisce la scelta delle parole ai giornalisti, che non sono più liberi di raccontare ciò che vedono sul fronte di guerra, non possono nominare ciò che vedono nel modo in cui pensano, ma devono farlo attraverso quello che pensa il potere. Siamo oltre Orwell. Nel libro che ho scritto e che lei ha citato, si parla di una persecuzione a due scrittori che va avanti per anni e anni a partire dal 1966. C’è la censura per la paura, il terrore della parola libera, e poi c’è l’onnipotenza del potere, che vediamo anche oggi, e che ha la presunzione di ricreare il reale».
La fragilità della democrazia nasce dall’informazione
Come sta l’informazione oggi?
«C’è stato un boom di informazione che l’umanità non ha mai conosciuto. Un’esplosione dei canali di comunicazione che è diventata un pulviscolo in cui siamo immersi anche senza volerlo. Da quando ci svegliamo a quando andiamo a dormire, siamo dentro un flusso continuo d’informazione. È una ricchezza incredibile che l’umanità non ha mai sperimentato, e con l’ubiquità dei nuovi mezzi di informazione abbiamo abbattuto il tempo e la distanza, tutto è contemporaneo, possiamo comunicare adesso quello che succede adesso. Il giornalismo però, ha bisogno di qualcosa di più, e anche il cittadino, per essere veramente informato, ha bisogno di qualcosa di più. C’è una differenza tra guardare e vedere così come, c’è una differenza tra incontrare e capire, tra capire e conoscere. Dentro al flusso ci sono cose importanti per capire e ci sono cose irrilevanti e il grosso rischio è che un saggio di Habermas e la pernacchia di un blogger arrivino ad avere la stessa rilevanza. Alla base di tutto, delle notizie da trattenere e quelle da scartare, sta la ricerca del senso. Tengo gli argomenti che sono capaci di dare il significato della giornata, il senso della fase che stiamo vivendo. I giornali fanno questo, gerarchizzano le notizie per ordine di importanza dalla prima all’ultima pagina, e forniscono una chiave interpretativa di storie complesse come la guerra o una pandemia».
Se lei si trovasse ancora oggi alla direzione di un giornale, quale sarebbe il senso che vorrebbe passare ai suoi lettori?
«Vorrei che sentissero la fragilità della democrazia in cui viviamo, e che smettessimo tutti quanti di considerarla una risorsa naturale e garantita. La democrazia è una costruzione umana, e come tale è fragile ed esposta, ha bisogno di cura, di riguardo e di manutenzione. Spesso abbiamo un atteggiamento parassitario nei confronti della democrazia, nel senso che la consideriamo un dono che c’è sempre stato e ci permettiamo di dileggiarla. La critica è salutare soprattutto se costruttiva, ma noi commettiamo l’errore di dare alla democrazia delle colpe che in realtà sono della politica, e nella politica diamo tutte le colpe ai suoi attori, senza pensare che anche noi dovremmo farne parte, e quindi almeno metà di queste colpe sono nostre, che li abbiamo scelti e non facciamo quello che dovremmo fino in fondo. Un giornale è un’infrastruttura della democrazia, e credo che dovrebbe dare conto di questa difficoltà e di questa essenzialità, senza dimenticarsi mai di dare un senso di speranza».

L’intervista a Putin
Qualche anno fa lei ha intervistato Putin, si ricorda cosa pensò dopo averlo ascoltato? Se avesse l’occasione di rifarlo oggi, che cosa gli chiederebbe?
«Sono passati tanti anni, ma credo che gli rifarei le stesse domande. Avevano organizzato un’intervista con 10 direttori di giornali internazionali e ci siamo incontrati tutti in una palazzina del governo appena fuori Mosca. Lui ci ha fatto aspettare 4 ore, 4 ore in cui noi giornalisti abbiamo avuto tempo di discutere sulla scaletta degli interventi; i tedeschi volevano partire dell’economia, ma sia io che il direttore del Times (James Harding all’epoca) abbiamo pensato di cominciare dai diritti. Quindi siamo partiti chiedendogli dei diritti nel suo Paese e se si stesse impegnando a non usare il pugno di ferro con l’opposizione. A questa domanda ovviamente ha dato una risposta democratica e attenta, ma per tutta la durata di questa fase della conversazione è stato seduto sulla punta della sedia, e non appena il collega tedesco ha introdotto l’argomento economia, si è rilassato appoggiandosi allo schienale».
Crede che tra 10 anni i ragazzi a scuola in Russia saranno in grado di condannare quello che sta succedendo in queste settimane, o penseranno ancora che quello che è stato fatto oggi sia giusto?
«Dipende tutto da quale sarà la cultura egemone del dopoguerra. Abbiamo vissuto il dopoguerra della seconda guerra mondiale all’insegna della democrazia, grande vincitrice a discapito delle dittature, pensavamo, sbagliando, che fosse qualcosa di universale. Evidentemente non era così e i primi a dircelo sono stati i terroristi islamisti quando hanno attaccato le Torri Gemelle; quel gesto è stato un attacco alla forma di governo che pensavamo potesse andare bene per tutto il mondo, abbattendo le torri sono andati contro al nostro modello di vita, alla nostra libertà.
Adesso Putin fa la stessa cosa, ci sta comunicando con la guerra che la democrazia non è la forma di governo del suo Paese, in cui cerca di ricostruire l’autorità imperiale, andando contro i valori dell’occidente e rifiutandoli. È questa la novità della fase in cui siamo appena entrati. La partita è sulla pelle dei cittadini ucraini, ma riguarda anche noi; dietro il fumo dei palazzi sventrati c’è l’occidente, il vero bersaglio di questa guerra. Saremo ancora in grado di dare valore alla democrazia, oppure la democrazia sarà una credenza che si è insediata nel ‘900 ma che non riesce a farsi strada nel secolo che stiamo vivendo? Non so quello che succederà, ma io ho fiducia, nonostante spesso l’uomo sia andato contro il buon senso e abbia agito più volte contro se stesso, io ho fiducia. Dovremmo tornare a guardare le parole e scoprire che dietro le parole ci sono i concetti… e dietro i concetti c’è la vita».