Philippe Daverio, interpretato dal suo amico Jean Blanchaert, (Milano, 1954), gallerista di arte contemporanea, curatore e critico d’arte. Ha curato decine di esposizioni in luoghi istituzionali, nel campo del vetro, della ceramica, del ferro, del legno e del marmo, ma anche nell’ambito dell’arte e della fotografia. Dal 2008 collaboratore fisso del mensile Art e Dossier (Giunti Editore).
Le giornate cominciano lentamente ad allungarsi e passeggio per la città, mentre la sera si fa pian piano spazio. Sono in anticipo e aspetto due minuti sotto il portone. Poi citofono e salgo le scale, con non poca emozione. Philippe mi accoglie nel suo studio, con l’inseparabile papillon, di un verde cangiante. Libri e opere d’arte sono impilati per tutta la stanza: disegni a carboncino, fotografie, quadretti a olio, testi sul vetro francese, candelabri antichi… sarà difficile mantenere fermo lo sguardo durante l’intervista.
Cos’è la curiosità e come si può allenare?
«La curiosità – come il coraggio – non si può imparare: uno o ce l’ha o non ce l’ha. Manzoni per bocca di Don Abbondio ha detto: “Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. Noi Daverio eravamo dieci fratelli. Abbiamo avuto un generale, un grande chirurgo, un architetto, un musicista, un estrosissimo storico dell’arte nato… e poi ci sono io. La curiosità non è per forza una cosa buona. Curiosità può essere un vizio… molto importante per un antiquario gallerista: lo fa muovere. Perché non è detto che tal capolavoro sia per forza nel castello famoso. Il tal capolavoro, magari, lo trovi in un posto inaspettato. La curiosità è fondamentale per il mio mestiere, per uno scienziato – che deve informarsi – ma non è necessariamente importante per chi si deve concentrare. Uno non può essere troppo curioso. Io sono troppo curioso».
E la curiosità l’ha portata in tv, in politica e a cimentarsi con la scrittura su più fronti… che connessione c’è, se c’è, tra l’opera d’arte e il libro?
«Come lei sa, ci si arriva per gradi. Io sono arrivato in Italia a diciassette anni, reduce dalla scuola francese. Ho fatto il Baccalauréat ad Istria, alla scuola Europea, non avevo ancora 18 anni e mi ero iscritto alla Bocconi. Ho cominciato a studiare e a fare il mercante. Ho avuto la Galleria e mi sono trovato a dover scrivere il testo introduttivo per gli artisti. E bisogna ragionarci su, bisogna essere chiari. Io posso dire di non essermi mai espresso in critichese: è più complicato scrivere un articolo semplice, che scriverne uno complicato. Dopo l’esperienza di gallerista, c’è stata quella politica. A quel punto, ho cominciato e imparato a parlare. Dopo tredici anni di Passe-partout, la trasmissione è finita. Allora ho cominciato a scrivere, scrivendo poco più di un libro all’anno: dodici libri. Scrivere è importante nel nostro mestiere per chiarirsi le idee e spiegarle agli altri».

Soffermandoci invece un attimo sulla politica, diventerebbe Presidente della Repubblica?
«Io diventerei Presidente della Repubblica, ma siccome mia moglie sarebbe contraria allora non lo farei. Tengo di più al mio matrimonio che a questa carica. Anche se io saprei cosa fare, non penso che mia moglie sarebbe molto contenta…».
E a proposito di conflitto di interessi, c’è un’opera d’arte presente nelle sue gallerie che non avrebbe venduto per nulla al mondo?
«Quando si è mercanti è un po’ come essere dei chirurghi: questo lavoro sostiene la tua vita e la tua vita è fatta di mille cose – automobili, villeggiature, regali… – ecco, l’opera viene benedetta nel momento in cui si vende, ma nessuna opera mi toglierebbe il sonno serale, soprattutto se venduta bene».
C’è invece qualcosa che le toglieva il sonno?
«Come autodidatta, non ho avuto bisogno di ansie per togliermi il sonno. Io il sonno me lo toglievo studiando, da mezzanotte alle quattro di mattina, tutti i giorni. Il sonno me lo sono tolto con passione, anche perché poi abbiamo ricevuto questo strumento qui (dice indicando il computer, ndr.) che per un curioso è incredibile. Se l’indomani devi consegnare un testo – dopo aver giocato alla curiosità e aver visto che a Kuala Lumpur c’è in vendita una bellissima villa – tu devi tornare all’articolo».
Cosa ne pensa delle mostre che si stanno sempre più digitalizzando, delle opere d’arte che vanno a finire lì dentro (in riferimento al computer, ndr.), fino ad arrivare alla Criptoarte?
«Non ho una preclusione. Ci sono delle opere che sono pitture digitali, rielaborate con Photoshop. Photoshop è una mia passione. Avete in mente i quadri antichi delle pubblicità Esselunga che si trovavano in metropolitana all’incirca quattro anni fa? Ecco, quelli erano photoshoppati da me. Avevo fatto un contratto con il mio amico Caprotti e, seppur fossero firmati Esselunga, sono il frutto della mia passione per Photoshop. La Criptoarte, come i bitcoin, richiede invece una competenza che io per ora ancora non ho: vediamo come si sviluppa».

Dove aprirebbe una galleria d’arte oggi?
«Io sono innamorato di Tarquinia. Però, a Tarquinia vado con la famiglia per riposare. Oggi, se dovessi aprire una galleria d’arte lo farei a Basilea, dove scorre il Reno, a un passo dalla Francia, a un passo dalla mia terra – l’Alsazia – e nel cuore del mercato d’arte mondiale».
Visto che non diventerà Presidente della Repubblica, posso permettermi di farle questa domanda: il più brutto e il più bello dei monumenti?
«Il più bello Piazza San Pietro. Il più brutto è Drancy: un posto con una cattiva imitazione della lezione di Le Corbusier, dove venivano raccolti gli ebrei francesi, in attesa di essere deportati ad Auschwitz. Drancy è un posto agghiacciante: oggi vi si trova un treno che dovrebbe ricordare la storia, ma nessuno degli abitanti ne sa nulla…».
A cosa serve l’arte?
«Un mestiere evidentemente utile è il chirurgo d’urgenza. L’arte serve a rasserenare il chirurgo d’urgenza che l’ha comprata, affinché il giorno dopo operi sempre meglio».
E in questo mare magnum odierno, chi può definirsi artista?
«Qui ritorna in gioco il parallelismo tra coraggio e curiosità. Si è artisti quando si ha un fiume interno al quale non si può impedire di uscire. Nel momento in cui l’artista si guarda in giro per creare qualcosa di vendibile, la sua storia è finita: la sincerità del gesto è fondamentale».
Per concludere, l’arte, come ha detto, va studiata. Ma quali sono gli ingredienti per raccontarla senza farle perdere spessore?
«Facendo riferimento a un detto francese, non voglio lanciarmi dei fiori».