Il professore Paolo Moderato sul metodo scientifico. Cosa significa pensare scientificamente e da dove passa il progresso. Quali sono i nemici invece?
Professor Moderato, grazie per essersi reso disponibile a questa intervista per Il Bullone; mi piace pensare a lei come a una figura autorevole nel panorama scientifico, qualcuno che firma le sue email con le tre parole Peace, Love and Science e che ha fatto della formazione di giovani professionisti della Scienza del Comportamento, una parte importante della propria vita.
Il metodo scientifico e il salto evolutivo
Che cosa significa fare scienza, comunicare con autorevolezza ed essere presi «sul serio» nel panorama contemporaneo?
«Beh, diciamo che questa è la madre di tutte le domande e la girerei in “che cosa significa pensare scientificamente”. Pensare scientificamente implica padroneggiare un metodo non dogmatico per conoscere la realtà, basato su prove fattuali. Ricordo che Umberto Eco alla domanda “qual è secondo lei, la cosa più importante che l’umanità si porta dal secondo al terzo millennio?” rispose: “il metodo scientifico”, spiegando che è lo strumento che ha consentito all’umanità di fare un salto in avanti più importante e più veloce rispetto a tutti i secoli precedenti. Il problema è che il pensiero scientifico è un modo di pensare molto recente, ha poco più di 400 anni. È faticoso, controintuitivo, e spesso si oppone a ciò che i nostri sensi percepiscono. Nonostante l’ampio uso della tecnologia, che è derivata dall’applicazione del pensiero scientifico, è ancora molto diffuso il pensiero magico, caratteristica del pensiero infantile, e purtroppo anche di molti adulti. La seconda parte della domanda riguarda la comunicazione autorevole e la comprensione. L’autorevolezza si basa certamente sulla fama e la rilevanza scientifica del comunicatore. Questo vale soprattutto per la comunità scientifica dei pari, ma anche sul fatto che il cittadino comune si fida e si affida a uno scienziato, perché ne riconosce il ruolo di esperto. Purtroppo da oltre 10 anni questo ruolo è stato minato e progressivamente distrutto. Sarebbe troppo lungo in questa sede analizzare il fenomeno, per chi è interessato rimando a un libro di Tom Nichols La conoscenza e i suoi nemici».
In un suo articolo del marzo 2020 scriveva: «Molte cose sono incerte in questo momento, ma una è certa: l’azione di contenimento dell’epidemia richiede interventi specifici sul comportamento delle persone». A distanza di quasi due anni cosa può dirci di come le scienze del comportamento possono ancora influenzare una gestione efficace della pandemia?
«In quell’articolo ricordavo come il nostro comportamento sia influenzato da due fattori principali: l’esperienza diretta e l’esperienza trasmessa verbalmente tramite regole, che hanno la funzione di evitarci le conseguenze pericolose spesso insite nell’esperienza diretta. Con l’esperienza diretta la percezione di un rischio è maggiore, ma è solo individuale, mentre le regole sono essenziali per raggiungere un gruppo ampio. Il problema delle regole è che possono essere poco chiare, e fonte di fraintendimenti. L’esperienza di questi mesi lo dimostra».

La paura ci salva ma non porta progresso
Sembra che di fronte alle grandi crisi del nostro tempo ciascuno costruisca la verità che più si addice alle proprie necessità contingenti. Mi torna in mente la storia dei sei saggi ciechi e dell’elefante: ognuno, non sapendo cosa fosse un elefante, ne toccò una parte per conoscerlo, arrivando a conclusioni straordinariamente divergenti. Cosa ci rende ciechi di fronte a questi scenari?
«Il genere umano ha sviluppato competenze che nessun altro organismo possiede, tra queste pensiero e linguaggio. L’uomo sa fare cose che nessun altro organismo in natura sa fare, ma ha bisogno di apprenderle tutte, fino alla morte. Il rovescio della medaglia è la fallacia: fraintendimenti, dimenticanze, errori di vario genere sono il prezzo della flessibilità del nostro comportamento. Se fossimo guidati solo da istinti geneticamente trasmessi, come accade alle api o alle formiche, faremmo molti meno errori, ma non sapremmo rispondere rapidamente ai cambiamenti ambientali».
Nel febbraio 2020 eravamo di fronte a un incontro senza precedenti, per come si stava presentando, con la paura. Qualcuno ha detto che non avremmo dovuto averne, che non avremmo dovuto fermarci, per poi rendersi conto che la paura ha una propria funzione importante. Ci aiuta a fare chiarezza rispetto a come sia utile relazionarci con questa emozione?
«Fra tutte le emozioni la paura è quella che ha il maggior valore salvifico e di sopravvivenza. Avere paura davanti a un pericolo spesso salva la vita. L’homo sapiens è arrivato fino ad oggi perché le sue paure gli hanno consentito di sopravvivere. Però se si è guidati solo dalla paura si sopravvive, ma non c’è progresso. Per l’avanzamento scientifico sono necessarie persone curiose, coraggiose, a volte temerarie, persone disposte a rischiare anche in prima persona per perseguire un’idea, un progetto, dei valori».

No vax e darwinismo sociale
Nel film Don’t look up si assiste alla separazione delle masse in due fazioni: Don’t look up e Just look up. Non pochi vi assocerebbero la divisione tra gli odierni pro vax e no vax; cosa ci dice in merito la psicologia evoluzionista?
«Per quanto riguarda i no vax sono sempre esistiti, sono nati il giorno dopo che Jenner aveva inventato il primo vaccino. Fortunatamente sono una piccola minoranza che purtroppo ora ha trovato uno spazio mediatico sproporzionato. Grande responsabilità ce l’hanno tutti i conduttori di trasmissioni che mettono sullo stesso piano argomentazioni scientifiche basate su fatti e opinioni bizzarre, in una distorta logica finto-democratica di par condicio. Il meccanismo che mantiene questa distorsione è lo stesso che si vede nel film, gli indici di ascolto, un meccanismo assimilabile ai principi del darwinismo sociale, da non confondersi con la teoria evoluzionistica sviluppata da Darwin. Mentre il principio della la teoria evoluzionistica è quello del fitness, cioè la capacità di adattamento di un organismo a un determinato contesto, la distorsione nota come darwinismo sociale si basa sulla violenza del più forte. Le metriche degli indici di ascolto selezionano ciò che rende economicamente di più, e questo raramente coincide con la qualità, molto più facilmente coincide con il trash».
Su Altrapsicologia è stato fatto un paragone tra il messaggio del film e la vicenda della mancata approvazione del «Bonus Salute Mentale»: ferma restando la complessità di un fenomeno come questo e senza andare nella direzione di eccessive semplificazioni, cosa ci porta in molte occasioni a gridare allarme per poi non agire responsabilmente?
«Al di là delle schermaglie e delle speculazioni politiche forse manca una chiara consapevolezza di quale sia la sofferenza in questo momento sia del personale sanitario, sia di alcune fasce più fragili più vulnerabili della popolazione, penso agli adolescenti, per esempio, e dei rischi che ciò comporta. Tra aprile e maggio 2020 abbiamo somministrato un test per misurare la sofferenza del personale in prima linea, i cui risultati, drammatici, sono pubblicati in un articolo su Frontiers of PSychology. Contemporaneamente avevamo anche messo in atto alcune prime forme di intervento telefonico per alleviare lo stress cui erano sottoposti medici e infermieri nei reparti covid. Ora siamo in una situazione quasi altrettanto difficile per quel fenomeno che è noto come compassion fatigue, dovuto alla gestione di pazienti anche gravi, dichiaratamente no vax, che non vogliono essere curati, e addirittura minacciano il personale che sta cercando di salvar loro la vita».

Il metodo scientifico per il bene sociale
Il tema del decision making è al centro dei dibattiti: scelte delle istituzioni, scelte degli individui.
Come l’architettura delle scelte può guidare verso uno scenario di maggiore collaborazione per un futuro migliore?
«L’architettura delle scelte, che fa parte delle tecniche applicative derivate dai principi della Behavioral Economics ha dimostrato la sua efficacia in svariati campi della salute, della società, dell’ecologia in quasi 300 Paesi i cui governi hanno istituito un behavior insight team che sostiene e aiuta i governanti nella scelta e nel modo di proporre scelte per il benessere della popolazione. Purtroppo l’Italia non appartiene a quel gruppo di Paesi».
Il Ministro Bianchi ha detto che il Governo ha scelto di fornire alle realtà, in questo caso, scolastiche, risorse da amministrare con autonomia, piuttosto che dettare dall’alto leggi con azioni imposte. È una scelta solo ideologica o ha fondamenti nel contesto della scienza del comportamento?
«Credo che il problema non sia tanto sulla questione scelta imposta dall’alto, ma su scelte di cui poi si possa misurare l’efficacia. Quello che manca al nostro Paese è la post visione, cioè la verifica delle ipotesi: questo intervento ha funzionato? Quanto? Se non ha funzionato perché non ha funzionato? Però qui torniamo alla domanda iniziale sul pensare scientificamente».
Dice un proverbio cinese: «Il momento migliore per piantare un albero era 20 anni fa. Il secondo miglior momento è ora». C’è una direzione verso cui sente di incoraggiare i lettori a volgere il proprio sguardo, e il proprio fare, da domani?
«La nostra vita è adesso, nel momento presente, come ci insegna un maestro recentemente scomparso, Thich Nhat Hanh, guardando allo stesso tempo anche avanti, oltre il proprio naso. Un antico detto, ripreso più volte negli anni, recita: “siamo tutti nani sulle spalle di giganti”. Per guardare lontano bisogna salire sulle spalle di questi giganti. Prima però bisogna conoscerli, sapere chi sono questi giganti. Cioè bisogna studiare, e non al “Google college”».