L’essenza del vero giornalista secondo Jill Abramson

Illustrazione di Chiara Bosna
Illustrazione di Chiara Bosna

Inervistiamo l’ex executive director del New York Times, Jill Abramson che ci dona un’importante lezione su cosa significa essere un vero giornalista

di Fiamma Colette Invernizzi

La aspetto, mentre una parte di me freme e una pensa che non arriverà. La aspetto con quella dose di ansia e brivido con cui si attendono i grandi eventi, che poi si sa che scivoleranno via lisci e senza intoppi. Ho per le mani il suo libro Mercanti di Verità. Il business delle notizie e la grande guerra dell’informazione e non riesco a fare a meno di giocare con gli angoli delle pagine, rileggendo frasi sottolineate e citazioni dalle firme anglosassoni.

Allontano le distrazioni dalla scrivania ed è proprio in quel momento che sento nelle cuffie un «Ciao» newyorkese che mi ricorda che sono le 22 di un venerdì sera e io sto per intervistare Jill Abramson. Lei, nata nel 1954, colosso del New York Times, di cui è stata direttrice dell’ufficio di Washington e caporedattrice, prima di essere nominata alla direzione esecutiva tra il 2011 e il 2014.

  On Tuesday, May 29, former Managing and Executive Editor of The New York Times Jill Abramson led a discussion on “Women’s Voices in the Media: Changing the World.” She highlighted the work of prominent women journalists and the challenges she faced as the first woman to rise to the top at the one of the world’s most prominent newspapers. In a lively exchange with audience members, she offered her thoughts on the changing media landscape and expressed optimism for the future of the industry and women’s leadership in it. Professor Elisabeth Prügl, Director of Gender Studies at the Graduate Institute, gave opening remarks, and U.S. Mission to the UN Counselor for Public Affairs Todd Pierce moderated the discussion. Tuesday’s program kicked off the “Women in World Affairs” speaker series jointly hosted by the Graduate Institute of Geneva and the U.S. Mission. The series will showcase the accomplishments and perspectives of prominent American women who are leaders in their fields.        U.S. Mission Photo/Eric Bridiers
On Tuesday, May 29, former Managing and Executive Editor of The New York Times Jill Abramson led a discussion on “Women’s Voices in the Media: Changing the World.” She highlighted the work of prominent women journalists and the challenges she faced as the first woman to rise to the top at the one of the world’s most prominent newspapers. In a lively exchange with audience members, she offered her thoughts on the changing media landscape and expressed optimism for the future of the industry and women’s leadership in it. Professor Elisabeth Prügl, Director of Gender Studies at the Graduate Institute, gave opening remarks, and U.S. Mission to the UN Counselor for Public Affairs Todd Pierce moderated the discussion. Tuesday’s program kicked off the “Women in World Affairs” speaker series jointly hosted by the Graduate Institute of Geneva and the U.S. Mission. The series will showcase the accomplishments and perspectives of prominent American women who are leaders in their fields.U.S. Mission Photo/Eric Bridiers

Jill Abramson il colosso del New York Times

Lei, che oggi è editorialista al Guardian e docente alla Harvard University, si presenta in tenuta da casa, in una felpa verde scuro che mi ricorda le folle delle partite di baseball. Mi osserva attraverso lo schermo e i suoi occhi sottili paiono invitarmi ad entrarci, ad avvicinarmi, inducono alla tentazione di sfoderare tutta la mia curiosità, in una sfida quieta di parole taglienti e verità profonde. «Vieni qui, che ti racconto una storia». Questo sembra dire quel suo sguardo di inchiostro denso.

Ricambio il saluto con una compostezza dal retrogusto di esitazione, mentre nella mente affiorano le parole che più volte ho letto alla seconda pagina del suo libro. Quelle poche righe semplici e dure, infinitamente reali: «In memoria del mio amico Danny Pearl, e degli altri grandi reporter che hanno perso la vita scavando in cerca della verità». Ecco. Quella sarebbe la storia di cui chiedere un assaggio di cronaca ben scritta. Ma io non oso chiedere e lei non me la racconta, certo che no, quella storia del suo amico Daniel Pearl che muore decapitato a Karachi nel 2002. Quel suo amico Daniel Pearl che era amico di un’altra donna dallo sguardo di inchiostro denso, Oriana Fallaci. Lascio cadere l’idea e permetto alla copertina del volume di chiudersi con un soffio.

Agguanto la penna e mi preparo a domandare. Le storie vere. Voglio sapere delle storie vere. «Credo fermamente che esistano ancora fonti autorevoli di notizie», mi dice scandendo le parole una ad una, con la lentezza di cui si veste la precisione. «Realtà in cui le storie sono puntualmente ben raccontate, estremamente inerenti ai fatti, affidabili e attendibili. Ciò non vuol dire che i giornalisti che le scrivono non abbiano una loro opinione, sia chiaro. Significa che sono capaci di tenerne conto e, nonostante ciò, mantenere un certo distacco dalla narrazione, allontanandosi dalla loro opinione personale. Sì, essere un vero giornalista richiede proprio un certo distacco: esige di essere un sagace osservatore le cui orecchie e occhi sono tesi e aperti in ogni situazione. Il vero giornalista deve sempre essere in grado riportare i fatti con una sorta di volontà di sorprendersi per quello che si trova davanti».

Jill Abramson (New York, 1954)   una giornalista e saggista statunitense, la prima donna a dirigere, dal 2011 al 2014, il New York Times, nei 160 anni di storia del giornale, in cui inizia a lavorare nel 1997. In precedenza ha lavorato per Time (1973–1976), The American Lawyer (1977–1986) e The Wall Street Journal (1988–1997). Nel 2012   stata classificata al quinto posto nella lista di Forbes delle donne pi  potenti. Oggi   editorialista politica al Guardian US e docente all’Università  di Harvard. Ad ottobre 2021 uscito in libreria Mercanti di verità , (in Italia edito da Sellerio), il suo corposo saggio sul giornalismo contemporaneo che racconta le difficoltà  e le sfide per i giornali tradizionali, da un lato, e le opportunità  e innovazioni portate dall’uso dei mezzi digitali, dall’altro, concentrandosi in particolare su due importanti quotidiani, il New York Times e il Washington Post e due siti online di informazione di immenso successo, Vice e BuzzFeed. (Illustrazione di Chiara Bosna)

Il giornalista nei social media

Fa una pausa e l’aria resta piena delle sue parole. Poi ricomincia. «Sai, se solamente vai là fuori, fai il reportage di una storia, ti focalizzi sul materiale che hai davanti e ti concentri nel riportarla semplicemente accontentandoti di seguire quello che tu pensi essere la verità, ecco, non assimilerai l’effettiva verità». La interrompo perché la domanda mi sorge spontanea: Come interferiscono i social media? Accenna un sorriso amaro, che è quasi un ghigno consapevole. «Per colpa dei social media come Facebook e Twitter c’è stata una vera esplosione di notizie inaffidabili», afferma scuotendo leggermente la testa. «Purtroppo, però, queste piattaforme esistono e vendono sia un punto di vista che una specifica prospettiva politica, e ciascuna storia riflette tristemente quella preesistente ideologia. Basti pensare che solo nel 2006 – due anni dopo la nascita di Facebook e lo stesso anno della nascita di Twitter – la quantità di dati digitali prodotti in tutto il mondo è stata tre milioni di volte il materiale di tutti i libri mai scritti».

Nello sguardo d’inchiostro vedo uno spruzzo improvviso di lava, prima di sentirla chiudere l’argomento con un pizzico di rassegnazione. «Sai, la mania emergente di ottenere un Mi piace, ovviamente, era – ed è ancora – antitetica alle notizie». Dritta sulla sedia, attenta come un segugio, torno indietro alle sue parole e mi soffermo su un termine che, per un guizzo, mi aveva dato da pensare. Aveva usato distance, quando parlava dell’essenza del vero giornalista, e tra distanza e distacco mi ero chiesta come – di fronte a certe storie – si riuscisse a mantenere una posizione «di lontananza» dai fatti. «Il distacco è sempre stato uno dei requisiti fondamentali del buon giornalismo», mi conferma lei. «Il distacco con il desiderio di raccogliere informazioni e prove da più fonti, non importa da che lato stiano. Questo è l’unico modo che si può avere per valutare, in seconda battuta, dove si trova la verità».

I pilastri del giornalismo

E gli altri pilastri?, la incalzo. Si ferma un attimo, non tanto per ragionarci su, ma per dare ancora più peso alle parole. «I valori fondamentali sono accuratezza e una narrazione completa, in modo tale da includere in ciò che scrivi i contenuti più informativi possibili e tutti i fatti chiave, anche se ogni tanto questi ultimi pesano e trascinano il racconto in una direzione o in un’altra. Una comunicazione completa è cruciale, composta di elementi e pezzi di un puzzle complesso che possono condurre, alla fine, alla verità. Ecco, tutto il processo narrativo, per questo motivo, deve essere riportato nella sua interezza e mantenersi distaccato, per dare la possibilità al lettore di scoprire il più possibile su un dato argomento e le fonti da cui le informazioni derivano. Solo così si formano lettori ben preparati».

La lascio proseguire, mentre la immagino assistere alle grandi trasformazioni giornalistiche dell’ultimo ventennio dalla prima linea, dalla sua posizione di osservatrice privilegiata. «Non mi affascina e non credo al giornalismo “namby-pamby“», prosegue facendomi sorridere su questo termine smanceroso, «ma sono ottimista e penso che stiamo andando in direzione di un giornalismo digitale anche efficace. Ormai i digital subscribers sono molti di più rispetto ai lettori dei giornali cartacei. L’unica cosa da tenere a mente è che tutti i giornali – anche digitali – devono fare del giornalismo per cui valga la pena pagare». Sorrido, e inevitabilmente penso al Bullone e alle sue profondità umane e storie di potente sincerità.

Ma cosa ti ha reso così forte?, le domando senza interruzione. «L’atteggiamento», mi risponde fiera. «Finché ho trovato la mia professione interessante ed importante, ne sono stata felice. Mi spiego. Mi è sembrato facile, nel 2014, non essere più l’executive director del New York Times. Sono ancora una giornalista, scrivo ancora, e non ho mai smesso di esserlo. Certo, ero onorata di ricoprire quel ruolo, e di essere stata la prima donna, spero non l’ultima. Ma quel lavoro, quel titolo, non hanno mai definito chi sono. L’ultima cosa di cui il Times aveva bisogno, credevo e credo ancora, era che i suoi migliori giornalisti fossero distratti dal loro lavoro da incontri infiniti con i product manager. Quella era diventata l’essenza del mio lavoro e sapevo che dovevo trascorrere del tempo in riunioni improduttive su compiti che per lo più odiavo. Quando sono stata licenziata, mi sono sentita comunque in una posizione fortunata, perché c’erano molte persone che volevano che facessi cose con o per loro. Quindi ho scritto il mio libro, ho insegnato ad Harvard e sono stata impegnata come lo sono sempre stata».

Lascio che le parole aleggino nell’aria, si quietino e si posino sulle superfici del mio salotto, sulla scrivania, che si infilino nelle pagine dei libri sugli scaffali, si incollino sulle copertine dei quaderni di appunti e impregnino le cuciture del divano. Jill Abramson, nel mio pc, si allontana dai titoli per avvicinarsi all’essenza. Quel lavoro – il direttore esecutivo del New York Times – e quel titolo di capo non l’hanno mai definita. L’essere giornalista sì. Allora mi allungo verso lo schermo e sorrido, proprio che sorrido con tutti i denti, il corpo, gli occhi e anche le punte dei capelli. Che consigli ha, per noi, giovani cronisti, Jill Abramson? «Se amate scrivere e fare reporting», mi sorride indietro, «non smettete mai di imparare come comunicare e scrivere news di alta qualità a un pubblico ampio, sempre più preparati e curiosi, perché questo vi porterà ad avere la miglior tipologia di vita, nonché la più interessante. Sono ormai otto anni che insegno ad Harvard e dico anche ai miei studenti che là fuori c’è bisogno di giornalisti che raccontino storie vere, accurate e ben scritte».

Non ho più domande – o forse ne avrei altre mille – ma soprattutto mi sembra di aver sentito tutte le parole che avrei voluto sentire. Ringrazio e spengo, ancora con l’impressione che quello sguardo di inchiostro denso sia rimasto impresso nello schermo. E forse anche in queste parole.