Per la B.liver Story di questo mese, porta la sua testimonianza Martina Dimastromatteo, che racconta la sua esperienza con l’anoressia nervosa.
Si avvicina il Natale, uno dei periodi più conviviali dell’anno. Luminarie, alberi addobbati, la corsa ai regali più azzeccati, profumo di zenzero, quei parenti che vedi una volta l’anno e che puntualmente ti chiedono «e il fidanzatino?», i maglioni brutti, i biscotti sul balcone per Babbo Natale e il latte per le renne, che altrettanto puntualmente finisce col gelarsi.
Ecco, fino a poco tempo fa io non vedevo nulla di tutto questo. L’arrivo di dicembre, per me, coincideva solo con una serie di pranzi e cene da saltare come la migliore ostacolista in circolazione.
Come è iniziata
Estate 2012. Difficile mettere insieme i pezzi, a distanza di anni. Soprattutto se uno dei sintomi maggiori coincide con la perdita di lucidità. E pensare che invece diventi così proprio perché devi tenere tutto sotto controllo.
Com’è iniziata? Non lo so. Potrei dire «perché mi aveva lasciata», come hanno pensato in tanti, ma sarebbe una scorciatoia troppo facile. Nove anni dopo, di cui quattro in psicoterapia, di risposte concrete a questa domanda non ne ho. Ma forse il punto è proprio questo: di anoressia nervosa ti ammali. E non c’è sempre una risposta razionale. Vorrei servirvela – e servirmela – qui, su un piatto d’argento, ma purtroppo non la ho.
Io per prima mi sentivo distante da questa «cosa»: mal di stomaco, nausea, indisposizione. Non riuscivo a chiamarla per nome nemmeno davanti alla diagnosi dell’ospedale. Anoressica io? Ma non scherziamo! Ho tutto sotto controllo.
Mi svegliavo all’alba, nonostante non avessi la giornata piena, mi vestivo silenziosamente e, con l’umidità della montagna che mi raffreddava le cosce, uscivo e iniziavo a correre.
Io e lo sport, prima di quel brusco incontro, non è che ci fossimo mai filati più di tanto; sono stata sempre più «portata per le materie umanistiche», mettiamola così.
Nelle orecchie avevo i brani più incazzati possibili. Il volume lo tenevo alto, tanto a quell’ora non avrei incontrato nessuno. Correvo fino a che non sentivo le caviglie cedere e la milza urlare. Passavano due ore, ogni volta, senza che me ne accorgessi. Ogni giorno aumentavo la tratta e il mio fiato da schiappa si faceva un po’ più lungo.
Al rientro a casa solitamente trovavo nonni e mamma svegli, a fare colazione. Non avevo nessuna voglia di sedermi con tutti, quindi mi infilavo sotto la doccia e ci rimanevo fino a che il vapore non diventava pioggia. Una volta asciutta, mi dirigevo verso il frigo: iniziava l’esaminazione. Lo yogurt era rigorosamente magro, ma mai abbastanza. Osservavo l’etichetta come la miglior investigatrice, senza perdermi una virgola. Tanto alla fine, a scelta avvenuta, ne assaggiavo solo due o tre cucchiaini. Erano già troppi. Ho tutto sotto controllo.

Una perenne insoddisfazione
Mio nonno sempre più lento in ogni gesto. Mia nonna sempre più ordinata. Mia madre sempre più silenziosa. Ma quando parlava, era ancora più fastidiosa.
Mi buttavo sul divano, stremata, ma non lo davo a vedere. Rimettevo piani, chitarre, batterie e bassi nelle orecchie, per non sentire niente. La mia campana reggeva al massimo un’ora, dopodiché mi sforzavo di riemergere dai cuscini e uscivo a fare quattro passi. Non volevo incontrare nessuno, e se lo incontravo abbassavo la testa, sperando di sembrare invisibile. Spesso a quelle passeggiate si univa mia madre e io ero sospesa tra l’euforia e la rottura di cazzo. Quando mi diceva «vai pure, io rimango a casa», la guardavo con disapprovazione, quando invece mi diceva «aspettami, vengo con te», alzavo gli occhi al cielo.
Era così per tutto, un continuo sali e scendi dei miei umori. Ormai ogni relazione si muoveva in direzione di una perenne insoddisfazione. Sentivo un bisogno incredibile dell’altro e, contemporaneamente avrei pagato oro per stare da sola. Quando stai da sola non devi rendere conto a nessuno di ciò che fai, di come sei. Ma io ormai di me stessa non sentivo nulla, o forse sentivo troppo.
Se penso a tutti i comportamenti e gli automatismi attivati in quegli anni, mi viene la pelle d’oca. I pranzi buttati, le mele messe in borsa di soppiatto. L’acqua ghiacciata per velocizzare il metabolismo, il piatto sempre più piccolo. I tragitti a piedi sempre più lunghi, con qualsiasi condizione metereologica, e pensare che io sono meteoropatica… Le costole specchiate nel vetro della finestra.
Ho tutto sotto controllo.

Ho tutto sotto controllo
Non vi racconterò il numero che segnava la bilancia quel giorno, nel reparto di disturbi alimentari dell’Ospedale Niguarda. Non ha alcun peso – scusate il gioco di parole – al fine del racconto. Non salgo su una bilancia da almeno tre anni. Perché se c’è una cosa che ho imparato è che io non sono un numero.
Mi costa molto fatica aprire questo vaso di Pandora, ma so che è necessario. Necessario a chi si leggerà un po’ in queste parole e avrà il coraggio di chiedere aiuto. Necessario a me, che non mi sono mai riconosciuta tutti i passi fatti.
Per otto anni l’anoressia ha fatto parte di me e, in un certo senso, so che ne farà sempre parte. E questa è la cosa che più mi spaventa. Ciò nonostante, credo che sia importante condividere la mia storia: ci sono ancora troppi tabù e troppi cliché legati ai disturbi alimentari. Io per prima per troppo tempo mi sono vergognata, finché ho compreso che il problema stava proprio nel modo in cui mi vedevo e pensavo: io non ero la mia malattia.
Ed è proprio questa consapevolezza che ora mi permette di chiamarla per nome. L’anoressia mi ha cambiata. L’anoressia mi ha tolto molto, troppo. Ma se oggi sono riuscita a guardarmi così nel profondo, lo devo anche a lei. Per certi versi io la figuro quasi come una compagna. Molto bastarda, ma pur sempre una compagna: si è infiltrata, subdola, nel mio cervello, come nelle peggiori relazioni tossiche. Ma poi è scattato qualcosa.
Troppe volte di fronte a un’anoressica si tende a pensare che tutto dipenda da lei. Mangia, perché non mangi, le ossa ai cani. Ma il fatto che il male che ella si infligge parte da lei – per quanto la forza di volontà sia il primo motore che deve attivarsi – fa troppo spesso dimenticare che si tratta di una malattia a tutti gli effetti.
I disturbi alimentari si insinuano in ogni aspetto della quotidianità. Il cibo e il corpo ne diventano il fulcro, ma non sono altro che lo specchio di un animo che pian piano si spegne, fino a sentirsi sterile, in un circolo vizioso che sembra non avere vie di fuga. Avevo così fame di vita che nulla mi sembrava abbastanza: io non ero abbastanza. Poi ho imparato, ma imparo ogni giorno, a fare mio il consiglio di un’amica: quello di accarezzarmi.