Intervista al regista di Pinocchio e Dogman, Matteo Garrone. “Il mio cinema resta sempre favola, il racconto trionfa sulle macchine”.
Ho sbagliato. O meglio, non ho colto un’occasione e me ne scuso. Ho preparato delle domande arzigogolate, pensando di improntare una conversazione complessa con un intellettuale. Dalla prima domanda, mi sono accorto che gli intellettuali hanno a cuore la semplicità. La semplicità, non la banalità, permette di arrivare al cuore delle cose ed è un’abitazione le cui fondamenta sono l’umiltà, i cui muri sono la conoscenza, il cui tetto è l’emotività. E io, una volta compresa l’inadeguatezza delle mie domande, non sono riuscito ad improvvisare bene. A giorni di distanza, mi mangio le mani perché avrei voluto chiedergli molte altre cose. Ma questa è l’intervista che ne è venuta fuori e la ricordo, nonostante questa petulante premessa, con immenso piacere. Matteo Garrone ci risponde dalla sua stanza a Cinecittà: ha uno sguardo calmo e un volto sorridente.
Garrone e il futuro
Il tema di questo mese del Bullone è il presente che verrà. Tecnologia e futuro vanno a braccetto. Le immagini, stanno diventando pervasive nella nostra quotidianità. Cosa significa il racconto per immagini? Quanto sarà influenzata dalla tecnologia?
«Non so rispondere a queste domande difficili, direi delle banalità. Io faccio film, racconto storie. Non mi sembra che sia in pericolo il racconto per immagini, credo che sia in pericolo il modo in cui vediamo il racconto per immagini. Credo che sia in pericolo il cinema inteso come sala cinematografica piuttosto che il lavoro di regista: non sono mai stati prodotti tanti film e serie come in questo periodo. Il pubblico non hai mai visto così tanti film come durante il lockdown. Ma io faccio il tifo per la sala perché sono cresciuto con la fascinazione del cinema, del suo rituale, del momento in cui ti immergi in un racconto e vivi emotivamente l’esperienza di vedere una storia raccontata su uno schermo gigante. Sono il primo a non sapere quale sarà il futuro. La mia impressione è che le piattaforme (streaming, ndr.) sempre di più prenderanno spettatori al cinema».
Ci sono dei film tuttavia, che riescono ad approdare agli spettatori e hanno un buon successo grazie alle piattaforme e senza le quali non riuscirebbero ad arrivare in sala. Secondo lei ci saranno film che usciranno solo sulle piattaforme, e altri solo in sala?
«Non è la piattaforma in sé il problema. Ma se diamo la possibilità di vedere un film che esce al cinema e un mese dopo su una piattaforma, le motivazioni di uno spettatore ad andare a vedere quel film saranno molto più deboli. In Francia, ad esempio, escono sulle piattaforme dopo un anno e mezzo dall’uscita in sala. Non c’è nulla di male nel vedere un film su Netflix, ma mi piacerebbe che la visione online non intaccasse la sopravvivenza della sala, come invece sta accadendo. Inoltre le piattaforme oggi hanno un ruolo cruciale perché possono formare il gusto del pubblico, soprattutto dei giovani, creando il rischio di omologazione visiva».

Il futuro del cinema
Oggi la pellicola è stata soppiantata dal digitale, anche nel cinema. Ci saranno dei nuovi passaggi tecnologici?
«Il passaggio dalla pellicola al digitale ha dato dei vantaggi nella ripresa, ma, a mio parere, per la proiezione l’analogico rimane molto più bello. Credo che la crisi del cinema sia dovuta non solo alle piattaforme, ma anche alla frammentazione delle sale: a parte qualche multisala in stile americano, sono sempre più piccole, così come gli schermi, sempre più simili alle televisioni, che invece sono sempre più grandi. Non so quale sarà il futuro, magari mi abituerò a vedere i film in un altro modo, per ora mantengo una visione romantica. Per chi crede nel cinema come racconto visivo e visionario, è chiaro che vedere un’immagine su uno schermo di venti metri è una cosa, rispetto a guardarlo sul cellulare, soprattutto da un punto di vista emotivo. Faccio film perché la gente li guardi al cinema e si emozioni a vederli in grande, ma so già che tante persone li guarderanno in altri modi».
La sua cinematografia ha sempre avuto una connotazione favolistica, sia che le storie partissero da fatti reali (Primo Amore, Gomorra, Reality, Dogman) sia che nascessero da libri fantasy (Il racconto dei racconti, Pinocchio). Puoraccontarci questo fil rouge?
«Ho sempre avuto una fascinazione per le storie e ho traslato questa passione su immagini. Ho una formazione pittorica e aver frequentato musei e opere d’arte legate al mito e al passato, mi ha influenzato. La dimensione fiabesca di cui parla è qualcosa di archetipico, legato al mito. Mi interessa molto raccontare storie di personaggi nei quali posso identificarmi e raccontare i conflitti che vivono, le contraddizioni, le battaglie che ognuno fa per essere felice e per essere amato. Al centro delle mie storie c’è sempre l’uomo e attraverso questi personaggi cerco di capire qualcosa di più di come si vive».

Garrone, cinema ed empatia
La scelta di queste storie, che parte dalla necessità di capire l’altro, ha bisogno di tempo. La lavorazione di Dogman è durata quindici anni
«Parte anche dalla necessità di capire certe cose che sono legate a me stesso. Il caso di Dogman è un discorso a parte. È una storia che mi ha sempre affascinato ma allo stesso tempo respinto. Fare un film che parlasse dell’esaltazione della vendetta, così come il caso di cronaca raccontava, mi interessava poco. Negli anni ho scritto sette stesure, ogni volta che cambiavo la sceneggiatura era perché ero cambiato io. Ho capito dopo quattordici anni che la chiave di volta era eliminare la tortura. Marcello è un personaggio non violento, vorrebbe che il pugile gli chiedesse scusa, ma ormai si trova in un turbine di violenza al quale non è abituato. Il fatto di cronaca racconta di uomo che si vanta di aver fatto a pezzi il gigante, il film parla di un personaggio che cerca una nuova amicizia: Marcello cerca di curare il pugile, ma è tardi. Alla fine muore anche lui, in un certo senso, perché ha ucciso. Alla fine mi sono immedesimato in questo racconto dell’uomo che entra in una dinamica di violenza e non riesce ad uscirne. Un film è un progetto che ti accompagna per degli anni della vita. È come scegliere di mettersi con una persona e fare un viaggio con lei: se è la persona giusta, il viaggio può essere bellissimo, viceversa, un incubo. È normale che prima di prendere una decisione mi prenda del tempo anche per esplorare strade nuove e non battute».
Al Bullone cerchiamo di essere autentici: parte di chi lo scrive non sono giornalisti ma le loro storie sono importanti per la verità che cercano di raccontare. Qual è il confine tra professionalità e autenticità?
«Non si escludono. Un attore può essere professionista e autentico. Questo non vuol dire che ci debba essere un realismo didascalico. Ci deve essere verità. Ci sono film che possono essere tutt’altro che realistici ma gli attori possono essere veri, e dei film che invece pensano di copiare la realtà com’è e sono falsi. Al cinema io cerco un’autenticità e una verità che spesso vengono confuse con un eccessivo realismo. Sullo schermo, una storia vera può diventare falsa e una storia inventata può diventare vera. Per me è fondamentale trovare una verità con l’attore. Sono disposto a creare un incontro tra la persona e il personaggio: scrivo un personaggio e poi, come un abito, lo faccio su misura per la persona che lo interpreterà. Ad esempio Marcello (Fonte, ndr.) ha interpretato quel personaggio, ma a sua volta, attraverso il suo modo di essere, mi ha aiutato ad arricchirlo».
Lei non ha frequentato scuole di cinema e partendo dalla passione per la pittura è riuscito a girare i primi film con la sua piccola casa di produzione. Come hai fatto? È possibile oggi? Le nuove tecnologie cinematografiche facilitano questo processo?
«Ho cominciato autoproducendo i miei film con i soldi che avevo guadagnato lavorando in un pub: non volevo che qualcuno investisse su qualcosa di cui neanche io ero certo. Non avevo grandi aspettative sui miei primi corti, mi sono serviti per imparare il mestiere. Se hai una buona idea, oggi girare un film è molto più facile rispetto a quando ho iniziato, perché le disponibilità tecniche sono molto più avanzate ed economiche».
Quale sarà la prossima storia?
«È la storia di un viaggio. O meglio, un romanzo di formazione legato al viaggio».
Alla fine della conversazione ci mostra i suoi storyboard di Pinocchio di quando aveva sei anni; ci racconta del suo rapporto costante col dubbio; della sua paura di volare e del fatto che per l’ultimo film sarà costretto a farlo; del fatto che da anni abita sopra degli studi cinematografici. Ci racconta della sua cicatrice: aver avuto un solo figlio e del rimorso di essersi accorto tardi della bellezza di essere padre. E alla fine, candidamente, ci invita a visitare il set del suo film ad aprile. Il racconto di una vita dedita alla sincerità dell’arte, da cui avrei dovuto cominciare, ma che purtroppo, in parte, mi sono lasciato sfuggire.