Suor Valentina Sala racconta quando la nascita può farsi ponte

Suor Valentina Sala è italiana e da otto anni vive a Gerusalemme, dove lavora nel reparto di ostetricia dell’ospedale St. Joseph, nella parte est della città. Ha creato un reparto, un punto di unione tra popoli e credenze religiose. «Perché laddove la cultura crea un muro, la vita si fa ponte».

Di Alessandra Parrino

Suor Valentina Sala vive a Gerusalemme da otto anni, dove lavora nel reparto di ostetricia dell’ospedale St. Joseph, nella parte est della città. Lei ci racconta di come la nascita può farsi ponte, punto di unione tra popoli e credenze religiose, perché laddove la cultura crea un muro, la vita si fa ponte.

Com’è il tuo vivere lì? Cosa significa «costruire ponti» nel luogo dove sei?

«Per rispondere alla domanda è necessario fare chiarezza sulla geografia di questo luogo. Il St. Joseph è un ospedale Cristiano cattolico, di appartenenza palestinese, prima era sotto il controllo della Giordania. Si trova a Gerusalemme Est, è qui che arrivano i feriti di Gaza. Tra Gerusalemme Est e Ovest esiste un confine, una barriera di paura, dentro la testa delle persone: si immagina che l’area dell’altro sia sempre una minaccia. Per questo da noi raramente arrivavano ebrei. Dopo due anni dal mio arrivo, viene aperto il reparto di maternità. Ma osservavo una certa “aggressività” sul modo di trattare i parti. Non c’era rispetto per la persona e per l’esperienza della nascita. Sentivo la necessità di operare dei cambiamenti, di creare un ambiente sereno, dove la donna e il bambino fossero al centro. Pensavo anche che, chissà, se togliendo le tensioni e la violenza dal momento della nascita, avremmo potuto aiutare i bambini ad essere persone di pace. Abbiamo iniziato così a inserire i metodi di parto naturale, lasciando che la vita nascesse dalla naturalezza. Poi abbiamo iniziato a usare anche il parto in acqua. Questo ha avuto molto successo, attirando anche tante coppie israeliane. E così, la prima volta, nel novembre del 2017 degli ebrei sono entrati nel nostro ospedale. È stato un avvenimento che ha richiamato la stampa sia palestinese che israeliana. La fatica è stata creare un ponte di accoglienza, abbattere il muro della paura e della sfiducia, aiutando anche le infermiere e le ostetriche a superare le rigidità nei confronti degli ebrei. Con calma e serenità, non costringiamo nessuno. Io sono sempre stata nel mezzo, a fare da moderatore e ad accompagnare questo percorso di incontro».

Come si vive l’interreligiosità?

«Il problema più che religioso è politico. Dopo i primi parti di donne ebree, le mie collaboratrici mi chiedevano perché si sarebbero dovute occupare dei bambini dei loro nemici. Ma un ospedale non può chiudere le porte. Le donne hanno incominciato a lavorare insieme e hanno scoperto che si può. Piano piano è cambiato il modo di accogliere l’altro, si è alzato il ponte della fiducia reciproca. Credo che la pace si possa ricostruire tra questo incontro di donne. Un’ostetrica palestinese per esempio è passata dal pensare: “Ma questo bambino israeliano sparerà ad uno dei miei figli in futuro?” a dire: “Ogni volta che lavoro cerco di dare il meglio di me, in modo che possano insegnare ai loro figli ad amarci”. È un equilibrio molto fragile, basta un niente che si torna ad essere donne palestinesi e donne ebree. Dopo gli scontri di maggio per esempio è tornata molta tensione. Finché non si rimargina la ferita grossa fuori, l’ospedale resta solo una piccola realtà lenitiva, che non può far fronte alla cronicità e alla profondità di questo dolore. Ma noi continuiamo a gettare semi, se andranno a buon fine si vedrà. Abbiamo imparato a comprendere che non è lo straordinario che trasforma, ma è stare nelle piccole cose, nel quotidiano. Come il granello di senape nel Vangelo, che ci ricorda che è il piccolo seme a cambiare la storia».

Suor Valentina Sala al St. Joseph Hospital
Suor Valentina Sala al St. Joseph Hospital

Come vivi il tuo «SI» dentro questa esperienza?

«La mia storia personale è stata intensa, travagliata. Ho ricevuto delle chiamate forti e non è stato semplice ascoltarle. Diventare ostetrica prima di tutto. Ma anche l’incontro con le suore di San Giuseppe. Con loro ho compreso che nella compassione, nello stare con chi soffre e far nascere Gesù nel mondo, c’era tutto quello che andavo cercando. All’inizio ne ero terrorizzata, poi ho accolto la chiamata. Ho lasciato il mio compagno, la mia vita. E per nove anni anche il mio lavoro. Fino a che non mi hanno chiesto di venire qui. Il mio è stato un percorso di spoliazione, in cui ho dovuto mollare tutto e accettare le cose come arrivavano. Con fiducia. E sono arrivate, in modi e tempi che non mi aspettavo».

C’è tanta fatica nel rispondere ad una chiamata…

«È il coraggio di essere veri. Io sono stata messa alle strette dal Signore. Quando ero più giovane avevo pensato che sarebbe stato bello ascoltarlo, ma poi a 18 anni, chi ha voglia di mollare l’amore, le relazioni? Però ho dovuto interrogarmi su cosa sentivo dall’incontro con Dio… era molto pressante. Ad un certo punto è diventato chiaro che dovevo rispondere. Era un sì, o un no. Ma se dicevo “no” a Dio, come avrei fatto a dirmi veramente fedele? Voleva dire abbandonare la fede. Dall’altra parte, un “” significava mollare veramente tutto… Costa fatica, ma bisogna arrendersi a quello che si è, alla chiamata che si sta ricevendo. Manca un po’ il fiato, non è facile, ma dopo si aprono degli orizzonti che non si erano mai pensati prima. Ci sono momenti cruciali in cui il Signore non ci lascia nel dubbio, ma ci mette davanti alle cose chiare, sta a noi dirgli “io ci sto”. E alla fine ha unito le mie due vocazioni, le mie identità e adesso capisco cosa aveva in mente.».

L’ospedale è un luogo che cerca di vincere tante contrapposizioni…

«A Gerusalemme ci sono diversi ospedali, tra questi il St. Louis qui vicino che è un hospice che si occupa di malati terminali e cronici. Queste due realtà ci permettono di vivere l’inizio e la fine della vita. Quando si arriva all’essenziale o si parte dall’essenziale si è veramente molto vicini come persone, nonostante i diversi credo. Non significa che siamo uguali, ma dentro questa intensità, le diversità non sono più barriere, ma punti di incontro. Non so se esiste un’altra città che come Gerusalemme riesce ad accogliere così tanta diversità. Qui si scopre che l’altro, seppur di religione diversa, è simile a te più di quanto credi. Non si distingue più l’ebreo dal musulmano. È una realtà da respirare più che da spiegare, ma credo che se sei in pace con chi sei, puoi accogliere l’altro».

Suor Valentina Sala
Suor Valentina Sala

Quando torni in Italia, che cosa senti?

«Quando una persona vive una realtà, si comporta a seconda di dov’è. Anche dentro un mondo in conflitto. Ma quando uno sceglie di andare via dalla propria terra viene visto come un eroe missionario. Io non sono d’accordo su questa immagine. Per esempio quando sono tornata in Italia l’ultima volta, ho incontrato molte persone sofferenti a causa del Covid e delle sue conseguenze. Per me è stato molto più difficile ascoltare tutte queste storie. Le relazioni intime sono un campo ricchissimo, ma possono anche trasformarsi in campi minati. Spesso diventiamo reattivi, usiamo parole che fanno male, alziamo dei muri difficili da buttare giù. Io stessa ho fatto molti errori, e ho imparato a frenare la lingua per imparare ad accogliere l’altro».

Per costruire un ponte è necessario stare, stare dentro la fatica e tutto ciò che c’è dentro…

«Ognuno ad un certo punto si deve porre la domanda “dove sono stato messo?” e poi chiedersi “Ci sto o cerco di scappare da questo posto che mi è stato dato?”. Anche io a volte scapperei, è difficile stare sempre in mezzo, cercare di mediare. Ma se c’è un prezzo da pagare, comprendi meglio il valore di quello che si vive. La vita non si gioca da soli, siamo sempre dentro un dialogo. Una persona capisce le cose se ci entra. Posso giudicare una realtà, ma solo se mi ci immergo, se mi sporco le mani, allora posso viverla davvero e posso capirne i meccanismi».