MILANO 2030 – Prima cosa da fare: lotta alle disugualianze.

Illustrazione di Daniele Bassanese
Illustrazione di Daniele Bassanese

Anche Milano è sfidata a non tradire se stessa, il suo cuore, la sua capacità di accogliere e offrire opportunità ai giovani, ai talenti, a chi ha qualcosa da dare, come Strehler, un gigante che non era milanese, ma come tanti, lo è diventato, e ha fatto diventare il Piccolo Teatro, il teatro d’Europa.

Di Giangiacomo Schiavi

C’è una domanda che in questi giorni rimbalza sui giornali e in tv: quale sarà il futuro di Milano? Io ho deciso di non farla più. È una domanda inutile. Il Covid è stato un implacabile livellatore di tendenze e la parola futuro appare vaga e lontana. Bisogna seminare bene, piantare alberi i cui frutti raccoglieranno altri, immagino i giovani, difendere le idee e mettere in sicurezza il presente. Serve un confronto fatto di esempi con ciò che vive, non con il passato e nemmeno con quel che sarà. Il futuro è adesso. Il virus pandemico riporta all’essenziale, a quello che ci serve per vivere, al bisogno di terra, acqua, luce, buon vicinato, al bisogno di cura, di quartieri accessibili, di buona medicina, di formazione, di attenzione alle diversità e contrasto alle povertà, di nuove opportunità da dare ai giovani…
Sono benvenute le idee raccolte in questi anni, anche dal Bullone, ci mancherebbe. Ma il primo mattone della Milano che ieri non c’era ha un’urgenza immediata, la lotta alle diseguaglianze: di reddito, di accesso, di reputazione, di capitale sociale. La ripartenza è un nuovo inizio, doloroso per le troppe perdite, i morti delle terapie intensive, gli spiriti guida che ci hanno lasciato. È anche una rivoluzione, culturale e ambientale, per onorare coi fatti le eredità visionarie che nel tempo hanno indicato rotte possibili, mai del tutto percorse.

Abbiamo visto tante Milano negli ultimi cinquant’anni, le abbiamo raccontate, amate, denunciate, condivise e contestate. L’ultima è stata quasi una vertigine per come veniva elogiata nel mondo, per come era diventata cool, per l’altissimo impact factor reputazionale. È stato anche un privilegio, per molti di noi. Vedere Milano da opaca diventare sorridente, cambiare carattere, con Expo e i suoi cittadini, esigenti e capaci di indignarsi, ma anche di riconoscere che Milano 2015 era attrattiva, giovane e vitale, una citta dove essere, come ha scritto il NYTimes. Questo privilegio però esigeva una restituzione, che è mancata. Milano è cresciuta in verticale, come il bosco di Boeri o come i grattacieli di Garibaldi e City Life, non in orizzontale, come si vuole oggi, rischiando alla fine di creare una piramide dell’ingiustizia.

Illustrazione di Daniele Bassanese
Illustrazione di Daniele Bassanese

La Milano di Giorgio Strehler

A chi mi chiede se c’è una canzone che rappresenta bene lo spirito che Milano deve ritrovare, rispondo che una c’è: viene da un’altra ricostruzione, da un’altra guerra. L’ha scritta Giorgio Strehler, genio illuminato dalla magia del teatro. È una metafora, una risposta coraggiosa alla tentazione di svendere se stessi, un inno alla dignità. Si intitola Ma Mi e parla di quattro amici, «quater malnat», che vuol dire poco di buono, ma senza esagerare, trascinati nella guerra e poi, uno di loro, al gabbio a San Vittore. E lì tra i topi e lo squallore di una cella senza luce riesce a resistere all’idea di barattare la libertà per una spiata: «mi parli no!». La canzone evoca una coerenza che nemmeno la disperazione può annullare e il messaggio un po’ esteso riflette anche spirito civico, cittadino e universale, quello di una città chiamata a guardare avanti senza perdere la propria anima, sfidando certe pelose convenienze.

Anche Milano è sfidata a non tradire se stessa, il suo cuore, la sua capacità di accogliere e offrire opportunità ai giovani, ai talenti, a chi ha qualcosa da dare, come Strehler, un gigante che non era milanese, ma come tanti, lo è diventato, e ha fatto diventare il Piccolo Teatro, il teatro d’Europa.

La paura oggi è che Milano si omologhi, diventi impersonale, una citta fotocopia, grattacieli, movide e spritz, dove le multinazionali fanno shopping mentre crescono le solitudini, le disguaglianze e i prezzi delle case per le giovani coppie.

Noi siamo qui, in questa copertina di Città, con piazza Duomo e la bici simbolica di un rider, chiamati a pedalare in salita, contro il pessimismo e il disamore, perché Milano sia al centro di un modo di essere che ha nell’etica del lavoro e nella cultura i pilastri sui quali appoggiare il proprio capitale umano. Quando si dice modello si intende la città che riesce anche a dare, a distribuire un po’ della sua ricchezza, a far crescere chi è rimasto indietro ed è svantaggiato, ma ha talento e volontà. È la contaminazione il valore di Milano, ed è quella che deve riunire le forze propositive della città per un passaggio d’epoca con due nuovi colori.

San Siro e Città Studi

Il verde e il blu, come scrive Salvatore Veca, il verde è l’abc di un progetto umano per il ventunesimo secolo.
Il blu sono le tecnologie digitali messe al servizio delle persone, per una città più vivibile, sensibile alla natura e attenta alla cultura, la città dei quartieri che si riconosce in una scala di valori diversa da quella che ha dominato il nostro tempo.

Per questo difendo San Siro e Città Studi, senza demonizzare il nuovo, che serve, perbacco, e di cui abbiamo bisogno. Ma non si deve demolire il buono che c’è, uno Stradivari resta uno Stradivari anche fra mille anni, e San Siro, Citta Studi o l’Istituto dei Tumori sono simboli da tutelare, non da abbattere o traslocare. Unica avvertenza: non rimpiangere il passato che non torna. Non si può vivere nel passato: quando Milano si guardava troppo indietro, ripensando agli anni mitici del boom economico, e aveva difficoltà a volare alto, arrivò in Cronaca al Corriere un grande psichiatra, Vittorino Andreoli. Era il 2002 se ben ricordo, e ci venne l’idea di chiedergli una psicanalisi della città. Andreoli prese sul serio la richiesta e tornò con un articolo durissimo: quando una città si guarda troppo indietro vuol dire che è malata, sentenziò, perché rivolgersi al passato o evocarlo di continuo, è un segno di morte, vuol dire non avere più niente da dare. Non bisogna avere nostalgia, ma memoria. E vivere bene i tempi, come suggeriva Sant’Ambrogio, perché vivendoli in modo giusto, anche i tempi duri come questo, possono cambiare. È un augurio, per oggi, che vale anche per il futuro.