Parla Ferruccio Resta il Rettore del Politecnico di Milano

Di Fiamma Colette Invernizzi

Cultura, relazione, cambiamento. Questi sono i tre concetti che emergono di più e si inseguono, mescolati a domande e riflessioni, speranze e obiettivi tangibili. Ferruccio Resta è dal 2017 Rettore del Politecnico di Milano, prima Università tecnica in Italia e tra le migliori venti in Europa nei tre ambiti di studio e ricerca: architettura, design e ingegneria. «Allora siamo colleghi», mi apostrofa quando scopre che anch’io ho conseguito le lauree nello storico Ateneo milanese. Resto un momento senza parole, poi sorrido, per la freschezza e la semplicità con cui lo dice, perché in qualche modo sento che ci crede davvero. Siamo colleghi.  

Da che cosa si riparte, Rettore Resta? 

«Dall’umiltà di osservare i nostri limiti. Il Covid19 è stato una doccia fredda per tutti. All’inizio pensavamo fosse un limite della Cina, poi della regione Lombardia, ma alla fine il mondo si è accorto essere un limite globale. E non ne faccio una questione sanitaria bensì molto più ampia, di gestione della ripartenza, della riorganizzazione delle strutture e di una società che ha importanti obiettivi (sociali, economici, sanitari, educativi e di formazione) che sono andati in conflitto l’uno con l’altro». 

In questa dimensione di difficoltà, il Politecnico di Milano come può essere di esempio?  

«Ci tengo a raccontare questo momento storico – dal punto di vista del nostro Ateneo – perché in qualche modo penso che sia necessario per gli studenti che non lo hanno vissuto sulla loro pelle. Tra qualche anno forse ci saremo dimenticati delle mascherine, della didattica a distanza e dei campus deserti, e per questo ho sentito necessario imprimerlo anche nelle pagine di un libro, come ho fatto in dialogo con Ferruccio de Bortoli. Ma soprattutto mi sono preso un momento per me, in primis, per chiedermi che cosa avessi imparato da quest’ultimo anno così particolare. Ne ho tratto due insegnamenti: il primo è di aver messo il vero problema al centro, non facendomi fermare da certe piccole cose (magari amministrative o burocratiche). La vera necessità era di riportare tutti gli studenti nelle aule – virtuali – e così è stato: in due settimane avevamo riattivato tutti i corsi online. Il secondo aspetto, ancora più significativo, è che l’Università non è soltanto trasmissione di conoscenza, ma anche relazione e impatto sulla società. Relazione per tutta la trama di dinamiche che si generano al suo interno; impatto sulla società per come lo stesso Ateneo entra in contatto con il mondo esterno di aziende, politiche e realtà economiche».  

Questa dinamica legata al mondo delle relazioni lega la componente umana alla cultura. Esiste un modo per insegnare tutto questo? 

«Esiste un modo per insegnarlo, che però non può essere il consulente che viene in Ateneo a fare i 5 CFU di Public Speaking. Io le chiamo “Life Skills” e sono convinto che si insegnino sul campo e con l’esperienza. La grande sfida e l’obiettivo delle diverse Facoltà sarà di avere una formazione composta sempre di più di momenti progettuali e di momenti extracurriculari. I nostri studenti sono per un terzo lombardi, un terzo italiani e un terzo stranieri. Ciò genera un confronto continuo, dal punto di vista delle conoscenze, delle esperienze e delle culture diverse, che permette agli studenti di crescere valorizzando le differenze». 

Cultura ed esperienza generano responsabilità? 

«La responsabilità credo sia la colonna vertebrale di ciascuno di noi. Io parlo di privilegio della responsabilità. E lo dico da Rettore ma vale per ciascuno di noi. Nessuno avrebbe mai voluto vivere questa situazione pandemica, ma assicuro che aver fatto il Rettore quest’anno mi rimarrà impresso per tutta la vita. La responsabilità è un obiettivo, e vuol dire coerenza, professionalità, valutazione dell’impatto delle nostre decisioni sugli altri, sul breve e sul lungo termine. Inclusione e sostenibilità sono parte del processo di responsabilità, per esempio. In questa visione, la cultura e l’esperienza sono gli ingredienti necessari per avere la capacità di prendere decisioni responsabili nei confronti di situazioni complesse e valori fondamentali. Questi due ingredienti sono sempre intrecciati, perché l’una senza l’altra è sempre fonte di limite, per il pensiero. Senza nessuna delle due, però, sarebbe come tirare un dado e lasciare spazio al caso. Un azzardo». 

Esiste un desiderio, per il Rettore del Politecnico? 

«C’è un auspicio, più che un desiderio, che è quello di riempire al più presto di studenti i campus e le aule. Per ora è solo una preoccupazione per la quale faticosamente prendo sonno la sera. E poi c’è un sogno, che è quello di vedere gli Atenei in grado di cogliere – e accogliere – il cambiamento. Come tutte le grandi istituzioni, anche l’Università teme la novità, l’innovazione e di perdere dei privilegi. Allo stesso modo è timorosa di lasciare il noto per l’ignoto, per cui non è soltanto una questione di vantaggi, ma anche di comfort. Io credo invece, che nei prossimi dieci anni si giocherà una partita importante e non può esserci un’inerzia mentale o fisica che limiti il cambiamento. Auspico che le Università abbiano il coraggio di guardarsi e di non aver paura di cambiare, perché è questo ciò di cui hanno bisogno i giovani di oggi. E parlo di cambiare in meglio, ovviamente». 

Rettore Resta, è stato un onore. Grazie.