Nel «reparto dei grandi obesi» noi siamo i piccoli stacchini

Di Elisa Tomassoli

«Ma chissà perché esiste il reparto dei Grandi Obesi? A noi potrebbero chiamarci Piccoli Stecchini».

In un reparto di ospedale, tra ragazzi affetti da disturbi del comportamento alimentare, è facile incorrere in battute legate alla patologia, soprattutto quando dall’esterno si riescono a riconoscere atteggiamenti illogici che il malato stesso mette in pratica; non è facile da comprendere il sarcasmo del malato, è difficile parlarne, figuriamoci scriverlo su un giornale, ma la verità è che, viste dagli stessi pazienti, alcune battute potrebbero facilmente essere portate a teatro.

Se, per esempio, si decideva di ascoltare una canzone, o di guardare un film, molto spesso ci capitava di proporre Le tagliatelle di nonna Pina, La fabbrica di cioccolato, o Chocolat proprio perché queste pellicole erano totalmente sconvenienti: la parte più divertente si celava proprio negli sguardi di rimprovero di dietiste e infermiere, che nascondevano tuttavia un sorriso divertito. Per noi pazienti, giocare e ironizzare sulla malattia è sempre stata una maniera efficace per esorcizzarla, e anche per evidenziare talvolta, come alcune delle nostre ossessioni siano insensate, sebbene per noi siano questioni di vita o di morte.

Inoltre, arrivare presto significava prendersi il posto migliore, quello più lontano dal gabbiotto delle infermiere, che ai nostri occhi assomigliavano a dei secondini di un carcere di massima sicurezza: controllavano che ognuno di noi ingerisse tutte le medicine (o come li chiamavamo noi, gli «shottini», perché andavano bevuti tutti d’un sorso), attaccavano flebo e sondini alle aste (i nostri cosiddetti «fidanzati», che ci stavano accanto per tutta la giornata, tenendoci compagnia tra le lunghe attese per le visite). Altro compito ingrato delle infermiere era controllare che i degenti in carrozzina non si muovessero, pena un severo rimprovero del dottore: e qui iniziava la gara a chi riusciva a fare più movimenti possibili senza farsi beccare, a spostarsi all’interno della stanza trascinandosi con i piedi; proprio grazie a questa tecnica, di cui io divenni presto una grande esperta, mi venne affibbiato il soprannome «tartaruga», proprio perché mi muovevo alla chetichella trasportandomi l’ingente mole della carrozzina, che oltretutto era anche arrugginita e cigolava, rivelando facilmente le mie manovre. Inutile ribadire che alla carrozzina non si scampa.

Un momento di grande fermento all’interno del reparto era sicuramente l’intervento dei tecnici, che accorrevano in caso di guasto: vedere dei prestanti giovani di bell’aspetto è un evento raro in un reparto d’ospedale, e tra le ragazze si sperava spesso che l’impianto di riscaldamento si rompesse; riacquistare il desiderio, o anche solo la volontà di incontrare altre persone sono sensazioni ed esperienze che in ospedale si imparano di nuovo, si riacquisisce la capacità di osservare, di discutere e chiacchierare con altre persone.

Per non parlare di quando, nel menù settimanale, ci veniva portata la crescenza, ribattezzata personalmente «La morte nera»: quando c’era quel formaggio per pranzo, potevi stare certa che si sarebbero mietute vittime, e dovevi pregare che non sarebbe toccato a te (perché nessuno, in fondo, lo voleva mangiare). Per fare chiarezza, le persone affette da DCA non sono ossessionate dalla linea, dal fitness o dalle tisane dimagranti che gli influencer propongono su Instagram: è proprio qui che la malattia diventa subdola, perché il pensiero delle calorie contenute in una forchettata di pasta, in realtà cela un malessere ben più profondo. L’aspirazione del malato è l’annichilimento, il rifiuto verso la vita, e quale stratagemma è più efficace della privazione del cibo che, come il buon Maslow ci ha spiegato, sta alla base dei bisogni essenziali e primari della vita?

Ancora oggi mi ritrovo a sogghignare mentre penso a tutte le strategie che noi pazienti mettevamo in atto per nascondere gli orologi: ebbene sì, dovete sapere che all’interno del reparto non è consentito portare nessun dispositivo che indichi l’orario; questa precauzione è utile per limitare alcuni gesti rituali che molto spesso vengono messi in atto prima del pasto, o in un determinato momento della giornata. Ed è qui che ogni paziente si adoperava per introdurre abusivamente uno o più orologi (in caso il primo fosse stato scoperto). La nostra stanza diventava il set di Ocean’s Eleven, in cui poltrone, astucci, tasche delle felpe, cartellette e anche battiscopa diventavano i covi perfetti per gli orologi illecitamente nascosti.

Ricordo come fosse ieri il mio primo giorno in reparto: ero completamente spaesata, non conoscevo nessuno, ma leggevo in tutti gli altri ragazzi la mia stessa sofferenza, la mia stessa paura di fallire, di lasciare vincere la malattia; solo con il tempo ho imparato i linguaggi e i ritmi di un reparto d’ospedale; apprendi guardando gli altri pazienti sia le buone abitudini, ma, ahimè, anche le cattive. Come evitare che ciò accada? Non si può, spesso si avvertono pensieri, si mettono in atto liturgie nuove e sconosciute, ma anche questo fa parte del percorso di guarigione, imparando e vincendo le pericolose tentazioni che si presentano nel momento del confronto con l’altro. Una cosa però mi è stata chiara sin dal principio: c’è una gerarchia anche tra i medici; se venivi chiamato dallo specializzando, potevi stare tranquilla, andava tutto abbastanza bene, se ti chiamava uno dei dottori della «Divina Trinità» (i medici «anziani» che si occupano il reparto), allora era necessaria una bella lavata di capo. Ma se venivi visitato dal primario, allora potevi star certa di averla combinata grossa; è necessario ribadire che, tuttavia, nel mio percorso terapeutico in ospedale ho incontrato medici sempre professionali, capaci anche di comprendere il mio disagio e di supportarmi, talvolta anche con parole dure ma sincere, indipendentemente dal «livello» che ricoprivano.

Le mie memorie del tempo trascorso in ospedale le porto come cicatrici nel cuore, ho avuto la fortuna di potermi affidare a un personale diligente e attento, ma anche di riuscire a stabilire un forte legame con i miei compagni di viaggio: quei pazienti che si portano ancora oggi la mia stessa cicatrice, che hanno sofferto e hanno sorriso con me, e che mi hanno offerto sempre una parola di conforto quando non ero capace neppure io di spiegare il mio dolore. Tra i corridoi d’ospedale ho conosciuto la malattia, ho imparato a zittirla, a portarmela con me e a mandarla a quel paese quando diventa fastidiosa, e anche, perché no, a prenderla in giro.