Imparare a stare accanto – Prestare i miei occhi

Illustrazione di Claudia Bignardi
Illustrazione di Claudia Bignardi

Di Rita, amica di Emanuele

Tutti abbiamo un passato che nasconde delle ferite da trasformare in feritoie da dove possiamo guardare con amore le nostre fragilità. Ma molti si rifugiano lì come una caverna dove nascondersi e sperare un giorno di essere trovati.

La magrezza di E. mi ha sempre interrogata contro chi e cosa lui stesse combattendo tanto da consumarsi così. Ad oggi non ho una motivazione precisa del perché, ma so che la risposta che lui ha trovato è stata anche la soluzione per uscire dal labirinto in cui si trovava. La sindrome della crocerossina è la prima risposta fisiologica a quello che vivevo, ma è un approccio perdente in partenza, perché se è vero che una persona non si salva da sola, (nessuno può sostituirsi al personale e atavico bisogno di vita), sicuramente non sarai tu la sua salvezza. Chi vive questa malattia, ogni giorno combatte una battaglia immaginaria e solitaria molto faticosa con se stessi e gli altri. Chi guarda da fuori, purtroppo, non riesce mai a comprendere fino in fondo. Bisogna essere coscienti di chi si ha di fronte, ed essere sostegni discreti lasciando a casa la supponenza del saper vivere bene.

Quando ho conosciuto E. sul luogo di lavoro, ho trovato molta difficoltà nel portare la relazione ad un sincero piano amicale; avvertivo che arrivavo fino a un certo punto oltre il quale non era permesso continuare. Quello, probabilmente, era il punto in cui iniziava la sua personale e gelosa relazione con la malattia. Vivevo tutto ciò con senso di impotenza, ma fiduciosa che una relazione sincera con qualcuno, l’avrebbe messo difronte alla realtà dei fatti: che era invischiato in un rapporto che non valeva la pena continuare, quello con la sua malattia. Non è facile mantenere la pazienza, ascoltando le bugie che si raccontava sul suo stato di salute; o non sentirsi prosciugati da quei discorsi senza senso che affrontavamo sul cibo. Molte volte mi sono sentita personalmente sconfitta dalla sua malattia, e credevo che tutti gli sforzi sarebbero stati inutili. Poi ho capito che l’unica cosa che potevo fare, era prestargli i miei occhi per vedere la bellezza che era in lui e che lo circondava, perché la malattia aveva offuscato il suo sguardo. Quindi, anziché ingaggiare battaglie puniche senza senso né efficacia, mi sono limitata a fargli vedere le piccole cose belle e quotidiane per cui valeva la pena vivere. Quante volte nella sala d’aspetto del Niguarda fantasticavamo sui viaggi che avrebbe potuto fare lasciando la malattia a casa. Dopo il ricovero riabilitativo, E. ha intrapreso un viaggio di rinascita grazie all’aiuto competente di medici e specialisti, e di se stesso ritrovato. La difficoltà, a questo punto, è stata ristabilire e mantenere un rapporto paritario tra amici, in cui c’è fiducia reciproca e sincerità, senza che l’ombra della malattia ci pendesse sul capo come una spada di Damocle. Questo per entrambi ha comportato un lavoro piccolo e quotidiano, in cui si cercava di rimandare qualsiasi pensiero alla realtà dei fatti.

Assistere al dispiegarsi della sua forza di volontà nell’ affrontare un percorso lento e doloroso, ha rappresentato uno sprone anche per me e, ne sono certa, per tutti quelli che hanno deciso di restare al suo fianco.