Di Michela, amica di Elisa
Ricordo quando ho avuto la notizia: in quel momento è diventato reale.
Come stare vicino a degli occhi che sembrano non vederti? Vicino a un corpo troppo impegnato in qualche suo rito per accorgersi che tu sei lì?
Ricordo quando ti vedevo nei corridoi: sembrava un gioco, una recita, in cui i personaggi iniziano a diventare volti.
Mi domandavo perché, perché tu e non io?
Mi sembrava cosi difficile da capire, incomprensibile riuscire ad afferrare il senso, il significato dietro al gesto della privazione continua. Volevo entrare nella tua mente, osservare ciò che tu vedevi, capire cosa ti stesse facendo così male.
Poi, ogni tanto, mi sembrava tutto impossibile, quasi un capriccio, ti incolpavo per riuscire a prendermela con qualcuno, qualcuno doveva aver causato questo.
Non dovrebbe capitare che si arrivi a tanto! Mi sembrava così assurdo e spaventosamente reale… doveva essere causa di qualcuno. Potevo incolpare l’Ambiente? L’Intorno? Il Sistema? Sono solo nomi vuoti.
E allora la colpa era tua. Allora la colpa era tua e mia.
Ricordo quando ho avuto la notizia, in quel momento è diventato reale.
Sei stata ricoverata e subito quei giorni di assenza nei corridoi si son colorati di sconfitta. Non la tua, la mia. Che stupidi siamo a pensare di avere il controllo.
Poi le persone a noi care hanno problemi. Poi noi non sappiamo come essere d’aiuto. L’impotenza di fronte all’incomprensibile, al vissuto di un altro.
Quanta difficoltà a gettare ponti. Bisogna avere il tempo e la pazienza per costruire spazi liberi dal giudizio. Quanto potere hanno i nostri gesti e le nostre parole: salvano o ammazzano. Ci vuole coraggio per aiutarsi.
Bisogna prendere posizione di fronte a ciò che non si capisce.
Per smettere di incolpare qualcuno, per smettere di incolparsi, per dare spazio al dolore, per ridare dignità alla sofferenza, per sorreggerci quando domani le gambe tremeranno. Perché prima o poi le gambe tremeranno a tutti.