Michela Marzano racconta il suo percorso con l’anaoressia

Michela Marzano interpretata da Chiara Bosna
Michela Marzano interpretata da Chiara Bosna

Di Sofia Segre Reinach

Parliamo di anoressia e ci viene spontaneo citare Volevo essere una farfalla, libro guida in cui Michela Marzano, filosofa, scrittrice e docente di filosofia morale alla Sorbona di Parigi, ci accompagna nel suo doloroso e trasformativo percorso di anoressia.

Michela, iniziamo facendo un po’ di chiarezza. Cosa sono i Disturbi del comportamento alimentare (DCA)?

«All’interno dei DCA ci sono vari tipi di rapporto conflittuale con il cibo. Per me sono un sintomo attraverso cui le persone cercano di dire qualche cosa che non riescono a dire altrimenti. È un modo attraverso cui manifestare un disagio, un dolore e l’impossibilità di trovare le parole per definire la sofferenza che si prova. Bisogna stare attenti a come e quando si agisce su di essi, e soprattutto a quello che cercano di dirci i tanti che ne soffrono. Quindi direi che i DCA sono una modalità dolorosissima per parlare di altro».

In generale è la dinamica della patologia psichiatrica, non trova?

«Parlerei piuttosto di disagio psicologico o disagio esistenziale. È una patologia, non è assolutamente un capriccio o qualcosa per cui basti semplicemente fare uno sforzo di volontà. Però farei attenzione a psichiatrizzare troppo, perché è un modo di chiedere aiuto, di dire: “ascoltatemi, accompagnatemi e datemi la possibilità di esprimere diversamente quello che c’è dietro”».

Cosa ne pensa del riconoscimento dei DCA nella LEA (Livelli Essenziali di Assistenza)?

«È necessario, perché bisogna permettere a chi non ha tutti gli strumenti, anche economici, di ricevere la giusta assistenza. Bisogna investire molto su strutture specializzate che accompagnino adeguatamente le persone nel proprio percorso. Sul territorio nazionale ce ne sono alcune di eccellenti, ma poche e mal distribuite».

In Francia, dove lei vive e lavora da molto tempo, c’è una percezione diversa sul tema?

«No, ci sono esattamente gli stessi problemi, la stessa superficialità. Non sopporto quando si rinvia sistematicamente il DCA a una banale questione di estetica. Non c’entra niente. C’è il controllo del corpo e del cibo, certo, ma dietro c’è un bisogno disperato di essere riconosciuti e accettati per quello che si è».

Come si è arrivati a semplificare così tanto questa condizione?

«Perché si cerca di trovare una risposta semplice a problemi complessi. E non è solo nel caso dei DCA. Questi disturbi sono malattie delle relazioni e spesso, mi spiace dirlo, sono il sintomo di una situazione familiare complicata. Viviamo tutti in famiglie disfunzionali, e non si tratta di giudicare in maniera particolarmente severa quelle all’interno delle quali si manifestano i disturbi alimentari. A un certo punto qualche cosa è andato male, si è incastrato. Sono patologie che spesso emergono in ambienti fortemente competitivi, quindi è vero che sono presenti nell’ambito della moda. Ma così anche nel mondo della danza, dell’università, della scuola, che non c’entrano niente con l’apparire, ma dove ci sono forti dinamiche competitive. Il disturbo è una reazione a questa competitività, a questo sguardo durissimo che abbiamo su noi stessi e sui nostri figli».

Come si sta accanto a chi vive un disagio simile?

«Credo sia fondamentale riuscire a gestire la propria impotenza e le proprie ansie. Capire che non si può fare nulla al posto della persona malata e smettere di caricarla di aspettative di guarigione. Perché altrimenti non si esce dal meccanismo e il peso si accumula. È difficilissimo. Dall’altro lato questo non vuol dire sparire, ma restare presenti. Esserci, perché l’amore è questo. L’amore è accettazione anche del fatto che l’altro in questo momento non voglia parlarci, o ci rifiuti. Restare, esserci, dare fiducia: “scommetto che ce la farai e ti aspetto”. Poi, altra cosa è la figura del medico, dello psichiatra, dello psicoterapeuta. Qui si tratta di accompagnare, ascoltare in modo estremamente rispettoso. Perché uno non ha bisogno di consigli, ha bisogno piano piano di trovare le proprie parole».

Che cos’è il coraggio?

«Il coraggio secondo me è aspettare, darsi tempo e perdonarsi. Non colpevolizzarsi se non si vedono dei cambiamenti. Nella mia esperienza il cambiamento è accaduto. A un certo punto il controllo del cibo scivola via, non occupa più il centro della vita, perché ti sei spostata all’interno, hai fatto un passo. Il problema è che quando ci sei dentro, immaginare quel momento è estremamente difficile. Tra l’altro, penso che oggi molte persone che non vivono un disturbo alimentare possano capirlo più facilmente perché stiamo vivendo l’incertezza. Nessuno di noi sopravvive all’incertezza, abbiamo bisogno di sicurezze. Io stessa sono stata spiazzata da questa pandemia, io stessa sto male, di nuovo. Talvolta bisogna stringere i denti, darsi tempo e concedersi anche i momenti in cui il sintomo prende il sopravvento, non colpevolizzarsi per questo, perché a volte accade paradossalmente proprio quando c’è uno spostamento interno che si sta per operare».

Lei porta avanti tante battaglie, c’è un file rouge nelle sue lotte?

«Sì, fragilità e sofferenza. Quando sento che anche se non posso riparare, posso stare accanto, accompagnare. È questo che mi spinge. Le battaglie che non sono le mie, lo diventano quando sento e tocco la sofferenza. E lì voglio esserci, non per essere al posto di, ma per dire ci sono. Ci sono due fili rossi che si intrecciano sistematicamente: l’amore e la perdita. Perché quando c’è una perdita io ho voglia di far ritrovare l’amore».

E la filosofia?

«Ho scelto di studiare filosofia perché mi ancoravo all’idea che attraverso il controllo del linguaggio e dei concetti potessi tenermi su con la famosa colonna vertebrale della razionalità.

Poi è arrivato un momento in cui ho dovuto totalmente cambiare il modo di fare filosofia. È diventata un modo di vivere. Mi aiuta ad avere chiarezza, talvolta a cercare la complessità dove c’è semplificazione, da questo punto di vista è uno strumento. Ho anche cambiato modo di scrivere. Ormai scrivo solo romanzi, anche se tutti fanno riflessioni attorno ai temi che voglio affrontare. Io insegno in un dipartimento di scienze sociali, le mie lezioni si concentrano sulla filosofia del corpo, sulla questione dell’identità personale. Dietro i miei corsi di filosofia morale c’è l’etica applicata, l’etica medica, il consenso, l’autonomia, la fiducia, tutti temi che sono presenti nei miei libri».

Nell’ambito dei DCA, ci sono delle parole che non sopporti?

«La parola che in assoluto sopporto di meno, che mi è stata detta tante volte e che sento ancora oggi anche in ambiti scientifici, è manipolazione: l’anoressico manipola. Questa continua a farmi male, soprattutto quando a pronunciarla è uno psicanalista».

Come si può sensibilizzare sui DCA?

«Sono storie così individuali… Io direi che bisogna sensibilizzare solo sul fatto che il disturbo alimentare è sintomo di un malessere. Sapere che è un campanello d’allarme che ci dice “c’è qualcosa che non va tra me e me, ma che cos’è?”. E spingere a cercare di ascoltarsi».

Ha paura delle ricadute?

«Può capitare che in momenti particolarmente complicati uno ricominci a guardare al cibo come a qualcosa di pericoloso. Però quando si è fatto un lungo percorso, si sa perfettamente che qualcosa ci sta indicando che forse abbiamo preteso troppo da noi. Quindi si hanno gli strumenti per dire “mi fermo” e passa. Quelle che non passano mai sono le difficoltà della vita e talvolta la nostra tendenza a dimenticare il fatto che siamo fragili».