Quando ho deciso di condividere la mia storia di malattia, grazie e tramite Il Bullone, era il 29 maggio 2020, ed erano già trascorsi 3 anni dall’inizio delle mie cure nel reparto DCA dell’Ospedale Niguarda.
Vorrei aprire tre questioni, di cui forse non tutti sono a conoscenza e che potrei permettermi di generalizzare per chiunque entri nel vortice dei Disturbi del Comportamento Alimentare e, in particolare, è il mio caso, nell’Anoressia.
La prima questione è che il momento in cui iniziano le cure quasi mai coincide con l’inizio della malattia e la manifestazione dei primi sintomi.
Spesso si arriva, nella migliore delle ipotesi, alla scelta di chiedere aiuto quando si giunge a uno stadio più avanzato della patologia, tanto maturo da essere parte integrante «della vita» del paziente, e da aver compromesso le condizioni fisiche, se non in maniera irreversibile o cronica, sicuramente in modo molto critico.
La scelta stessa di sottoporsi alle cure è parte del percorso di malattia e (si spera) dall’inizio della guarigione.
Qui la seconda questione: affrontare il mondo interiore/se stessi. Tutto ciò implica la presa dicoscienza di «essere malata». L’accettazione da parte di chi soffre di tali disturbi è molto dura a livello psicologico.
Accettare di volere epotere chiedere aiuto (legittimarsi) implica uno sforzo enorme e non scontato e non necessariamente coincide con il sentire di avere una vera e propria malattia. Spesso ci si rassegna, come nel mio caso, a cedere alle richieste degli altri, una sorta di «favore» da dover fare a chi ci sta vicino.
Il non sentirsi da meno, inferiori, deboli, problematici, incapaci, falliti solo perché si ha bisogno o si chiede aiuto, porta a confrontarsi con tutta la parte di sé che emergerà costantemente, come con la peggior strega che si sia mai incontrata nella peggior fiaba.
Significa aprire gli occhi e re-agire: se non ancora per se stessi – per condurre una vita degna di tale nome – almeno per gli altri, per fare stare sereni i nostri cari.
Significa saper riconoscere di essere impotenti e di avere una difficoltà, perché è umanamente impossibile essere in grado di uscirne da soli.
Questo non si traduce nell’essere un peso o un problema, al contrario, è proprio questo senso di onnipotenza e la convinzione di poter far tutto da soli, ad essere il reale problema.
Ultimo, ma non per importanza, lottare anche nel momento in cui stai chiedendo una resa. Scontrarsi con la parte di sé che con ogni forza ha fatto resistenza per impedirti di prendere coscienza e che con determinazione continuerà il suo gioco nella guarigione. Se la resa è imposta dall’esterno tutto diventa più complicato e la lotta è duplice.
Questo accade proprio nel momento in cui si è riusciti perlomeno a sdoppiarsi e a capire che tu non sei la tua malattia, puoi essere altro e non sei da sola.
Il momento in cui capisci che la guerra la stai facendo a te stessa e che il nemico non è fuori, ma dentro di te. La priorità diventa affrontarlo e pre-occuparsene, anche se lo vedevi come l’«unico amico», capace di darti forza, sicurezza e protezione.
La terza questione è affrontare il mondo esterno: la gente che ti circonda.
Il senso di vergogna ti fa sentire così piccola perché hai una «cosa» che neanche ha il diritto di essere chiamata malattia, o se la riesci a nominare, non riesci a comunicarla: come ammettere che il tuo scopo nella vita è un numero? Un obiettivo che è diventato dogma.
È impensabile far capire e convincere che: la tua giornata può essere sostenuta con una mela, conti i maccheroni che hai nel piatto, centellini, con precisione da chimico, le gocce d’olio nella tua insalata.
Non riesci più: a guardare un film, a parlare con i tuoi genitori, ad uscire con gli amici; a dormire la notte, perché la tua testa è su quel numero, sul movimento che hai fatto o che dovrai fare il giorno dopo per mantenere quel peso, sul costante bilancio che devi giustificare a fine giornata, sul controllo e previsione di qualsiasi cosa ti accada.
Quando qualcuno cerca di entrare in questo mondo così schematico che neanche il miglior ingegnere riuscirebbe a costruire, inizi a inventarti tante bugie che neanche Pinocchio potrebbe gestire; mille scuse per nasconderti o fuggire su quell’«isola felice».
Ma perché fa così paura parlarne e aprire le porte della prigione che hai creato con le tue stesse ossa? E a chi permettere di aprirle per far entrare aria in questa stanza soffocante? A chi permettere di starti accanto quando non riesci tu stessa a farlo?
Non tutti ci riescono, infatti, perché non tutti capiscono o, perché più di noi si sentono impotenti, incapaci o non autorizzati. C’è chi non se ne accorge, o chi finisce per viverlo come un capriccio.
Quanti tabù, quanta ignoranza e scarsa informazione c’è intorno! Quanta rabbia e compassione per le persone che diventano opprimenti, per quelle che neanche ti vedono, o fanno semplicemente finta, per chi scredita la malattia, o ne fa motivo di scherzo.
Io stessa ne ho fatto una barzelletta, una «grassa risata» sui «mesi persi» in ospedale; su come mia mamma spiegava al vicino di casa o al parente: «Mia figlia va tutti i giorni a mangiare in ospedale», quasi fossi un’infermiera alla mensa; sulla facilità di uscirne: «ma sì tanto basta che mangi…», «finalmente si vedono un po’ di pancia, culo e tette».
Ma il mondo esterno non è fatto solo dai propri cari e dai veri partner di questo percorso: dottori, medici, psichiatri, ma si estende ovunque, a scuola, al mondo del lavoro.
Che giustificazioni trovare con il proprio datore di lavoro, con il selezionatore durante i colloqui per dare un senso ai buchi sul cv, ai permessi di cui necessitiamo, alle limitazioni di sforzi, orari, carichi e così via; ai colleghi, agli insegnanti o ai compagni di scuola, per la propria assenza, per le mancanze o per ciò che potrebbe essere letto come un «privilegio».
Qui l’ironia della sorte è anche più sottile: ti trovi a dover sponsorizzare la tua malattia per farti assumere e farti assegnare quell’etichetta invalidante, che se da un lato, lentamente, ti consentirà di uscire dalle mura dell’ospedale, ti farà anche uscire allo scoperto e ti metterà a nudo davanti a tutti.
Lì mi vedo finalmente anch’io.
Mi vedo ancora in quel corpicino così fragile, in quegli occhi così spenti da non riuscire a vedere neanche più la luce, in quei muscoli così stanchi di caricarsi di tutta quella pesantezza, in quel sorriso che emana tristezza.
Ti guardo e ti vorrei dire: la vita è solo tua; meriti di vivere e non di sopravvivere, perché la vita è tanto bella; impara a vedere quello che vedono gli altri, a cambiare prospettiva e a non soffermarti solo su ciò che non va, a capire che se non ti ami e non ti prendi cura di te, nessun’altro potrà farlo al posto tuo; che quella che ti sembrava l’unica soluzione al tuo disagio, è in realtà la tua condanna a morte.