Giuliana Coen Camerino, in arte Roberta di Camerino (Venezia 1920 – 2010) stilista italiana e imprenditrice. Ha fondato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale la griffe Roberta di Camerino, uno dei marchi italiani più famosi nel mondo, intitolata alla figlia.
Roberta Camerino interpretata da Roberta Camerino, 74 anni nasce a Venezia. Stilista come la madre Giuliana, ha lavorato trent’anni per il marchio di famiglia. Dadhai è il suo nuovo progetto imprenditoriale che nasce nel 2018 con la prima collezione di borse.

Di Marta Viola
Venezia, primo pomeriggio di una giornata invernale e soleggiata.
Precisamente sono a Palazzo Grifalconi Loredan, dove oggi si trova l’Atelier Roberta di Camerino. Non mi sembra vero poter incontrare una donna così determinata nell’affermazione della sua creatività. Dalle vetrate entra una luce che rende l’atmosfera calda e informale. Mi guardo intorno, sono sola. Improvvisamente, nella quiete dello spazio espositivo, colori in movimento catturano il mio sguardo: «Ciao Giuliana, sono davvero onorata di conoscerti!».
La moda negli anni 50 iniziava ad avere un ruolo importante e tu sei stata promotrice di grandi innovazioni. Ci racconti i dettagli dei tessuti e dei materiali scelti?
«L’ispirazione è venuta perché ho vissuto un’avventura in cui ho cominciato a capire che potevo creare borse. Ero in Svizzera, una signora mi chiese di venderle la mia borsa perché le piaceva molto. Un po’ per gioco gliel’ho venduta, ma non ho trovato nulla di nuovo che mi piacesse e ho deciso di fare da sola un’altra borsa. Imparai come farla, comprai il pellame e la realizzai. In seguito mi bloccarono in treno due poliziotti perché ero stata denunciata come contrabbandiera dalla signora a cui avevo venduto la mia borsa. Per fortuna venni scagionata. Nel frattempo iniziai a lavorare, tornai in Italia dopo la guerra. Non avevo voglia di essere una signora che giocava a carte, decisi così di fare borse. Scelsi un tessuto diverso dal solito, il velluto, perché rappresenta Venezia, e per la prima volta viene visto in questa nuova modalità. La borsa secondo me, deve essere un oggetto di piacere, non c’era spazio per la borsa nera. Già allora amavo molto i colori, da qui i protagonisti rosso verde e blu, ispirata dai quadri di Tiziano».
Tutto ciò che produciamo viene prima immaginato. In questo processo creativo quanto conta secondo te il legame con il territorio di origine come fonte di ispirazione? Venezia è una città d’arte e ricca di fermento, su di te che effetto ha avuto?
«Conta moltissimo dove hai vissuto. I colori, l’arte del luogo, l’atmosfera, anche il periodo politico, tutto influenza ciò che crei. Il colore, in particolare, l’ho sempre sentito dentro. All’epoca ho fatto abbinamenti di tonalità che sembravano impossibili, ma per me non esistono colori che non stanno bene insieme. L’importante per me è che siano definiti, anche quelli chiari e pallidi. Dalì disse che vide per la prima volta l’arte nella moda e la trovò nelle mie collezioni. Amo molto il Made in Italy e sono stata assorbita non solo dai colori e dai tessuti, ma anche dalle guarnizioni della mia città. Tutto ciò che di particolare poteva offrire Venezia l’ho voluto riportare nelle creazioni. Negli anni le collezioni hanno seguito l’influsso delle mie esperienze, come il periodo in Africa. Le mie sfilate le ricordo strepitose, amavo molto anche lo spettacolo e ho messo tutta la mia passione negli eventi che abbiamo realizzato. Mi sono divertita all’infinito a creare anche le coreografie, ero sempre in prima fila».
Vedi una variazione di ciò che oggi riteniamo «bello»?
«Sì. Oggi vedo poche idee e molta influenza da parte di un mondo che non propone più punti di riferimento. Non c’è un background di educazione e storia per i giovani. Si interpretano i concetti di “bello” e di “moda” solo in base a ciò che si vede sui social e nelle pubblicità. Credo che oggi sia difficile creare qualcosa di iconico, perché tutto è stato fatto, ma penso che non cerchiamo neanche più stimoli capaci di dare eleganza alle proposte. Tutti noi abbiamo bisogno di prendere spunto da altre cose, ma se si è creativi bisogna saper cogliere l’ispirazione e rielaborare creando qualcosa di differente».

Com’era essere una donna dirigente, in quegli anni? Vedi analogie con la contemporaneità?
«Ero un gendarme, non ero una donna. Nel lavoro sono sempre stata molto decisa e forte, andavo avanti per la mia strada. Ero così proprio di carattere, anche da giovane. In quel periodo, non eravamo in tanti a lavorare in questo settore. Negli anni ho sempre continuato a fare le cose nel miglior modo possibile. I miei foulard ancora oggi, sono perfetti, perché composti al 100% da pura seta. L’educazione della semplicità mi appartiene, non mi sono mai vantata di ciò che avevo e delle situazioni in cui mi trovavo. Mi sono costruita il mio mondo e sono fiera di questo percorso. Ho sempre cercato di fare le cose per conto mio».
Parlaci un po’ del rapporto quotidiano con chi lavorava con te, come erano le giornate e come hai messo insieme questa macchina aziendale che è diventata così importante.
«Lavoravo con amore, altrimenti non avrei potuto farlo. Dicono che era difficile starmi vicino tutti i giorni. Ricordo che nei periodi più intensi erano tutti distrutti dai ritmi da sostenere, a me invece bastava riposare molto poco per recuperare le energie. In poco tempo mi sentivo più forte di prima, come se avessi dormito quattro giorni. Viaggiavo continuamente come se niente fosse, per esempio quando andavo in America. Credo di avere avuto proprio un buon DNA. Controllavo ogni aspetto del lavoro della mia azienda, ogni decisione doveva partire da me. Riguardo ai collaboratori, non elogiavo apertamente le persone, ma in qualche modo potevo farlo capire. Mi hanno amata e odiata, tutti quanti».
Che cosa diresti ai giovani oggi?
«Buttate via tutto e ricominciate da capo. Ho sempre cercato di capire i modi diversi dai miei, forse ci riuscirei anche oggi nonostante le distanze generazionali. Vorrei dire ai giovani di non credere che allora le cose fossero più semplici. Ho avuto parecchie difficoltà, all’inizio non capivano i miei disegni tromp l’oeil, perché erano abituati ai vestiti ben confezionati e il prêt-à-porter era qualcosa di distante dalla conoscenza comune. Sono certa che anche oggi potrei creare qualcosa di iconico. In ogni situazione si può immaginare la novità. Nelle condizioni più difficili le menti creative mostrano il loro bisogno di andare avanti, trovando il meglio di ciò che il mondo oggi ci offre. Ho attraversato periodi bui come la guerra, ma sono un’ottimista, penso sia necessario trovare il positivo per far vedere che si può continuare a stare bene».