Luciano Floridi «Etica digitale, censura e strumentalizzazione»

Di Francesca Bazzoni

In un’epoca in cui il digitale ci ha permesso di avere il mondo a portata di un click ci chiediamo quali siano le regole della nuova comunicazione e quanto il seguirle possa influire sulla nostra libertà personale. Ne parliamo con Luciano Floridi, filosofo e professore di filosofia ed etica dell’informazione presso l’Oxford Internet Institute dell’Università di Oxford.

Partiamo da quello che è successo negli Stati Uniti, Russia, e tanti Paesi dove la libertà di espressione è stata messa in dubbio da provvedimenti spesso drastici. Dove sta il limite in questa libertà? É giusto parlare di censura?

«Parlare di censura può essere pericoloso, bisogna differenziare i provvedimenti. Ci sono ad esempio, aspetti legali che richiedono la chiusura di alcuni siti perché contengono materiale illegale, questa non è censura, non c’entra con la libertà di pensiero, ma rappresenta il giusto intervento da parte della società per difendersi. Allo stesso modo Trump non è stato censurato, ma rimesso all’interno delle regole sociali del buon vivere. Ci sono poi casi gravi in cui si hanno davvero fenomeni di censura, come impedire a qualcuno di esprimere le proprie idee, sopprimere la libertà di stampa e la critica, anche quando rimane all’interno di buone regole. Questa è la differenza tra censura e interesse pubblico che va difeso contro il cattivo uso degli strumenti digitali. La linea di separazione ci fa chiedere in che società vogliamo vivere: in una dove chi critica il governo in modo civile, per esempio, viene censurato, o in una dove chiunque può dire qualsiasi cosa anche se violenta od offensiva. Non sono le aziende che dovrebbero decidere in che società viviamo, ma la società che dovrebbe decidere in che modo operano le aziende».

Se il controllo fosse statale non ci sarebbe il rischio di una strumentalizzazione da parte dello Stato?

«Il controllo della comunicazione da parte dello Stato non è stato positivo in passato, perché quest’ultimo non è sempre dalla parte del cittadino. In Europa preferiamo comunque il controllo pubblico dello Stato a quello delle aziende, mentre negli Stati Uniti si fidano più delle aziende. L’equazione dovrebbe comprendere un terzo elemento, quello che vede la società civile, cioè chi vota e chi acquista, mettere in buona competizione il mondo privato delle aziende con quello politico del governo e dell’amministrazione pubblica, e trarre beneficio dall’equilibrio tra questi due poteri. Le aziende fanno un buon lavoro nel momento in cui competono tra di loro e con lo Stato per dare ai cittadini un servizio migliore, e lo Stato competendo e regolamentando le aziende. Finché c’è il monopolio sulla vita comunicativa e sociale da parte del privato o del pubblico, la società non vive bene. L’Unione Europea in questo sta facendo un buon lavoro, cercando di bilanciare interessi privati e pubblici».

C’è differenza tra la libertà di un cittadino comune e quella di un personaggio pubblico?

«Avere un ruolo pubblico significa far scaturire interesse pubblico, si tratta di un’altra soglia di tolleranza della comunicazione. Lo stesso avviene nel dibattito sul diritto all’oblio che fa una differenza tra interesse pubblico e no. Se un contenuto di qualsiasi tipo è legalmente online, diventa quasi impossibile per un personaggio pubblico poter ottenere che non venga indicizzato da un motore di ricerca; mentre un cittadino privato può sicuramente farlo, qui nasce il dibattito. Si tratta di vedere l’articolazione e la flessibilità del sistema, necessarie per far sì che questo si adatti alla situazione. Certo il rischio è la frammentazione delle regole, ma questo è l’eccesso».

Ci sono algoritmi che studiano e indirizzano le nostre scelte. Quanto il diritto alla privacy condiziona la nostra libertà?

«È più corretto parlare di autonomia: è condiviso il pensiero che le persone siano autonome e diano regole a se stesse all’interno di determinati fattori. La presenza di media che ci suggeriscono costantemente quali scelte fare, lede l’autonomia, non attaccandola direttamente, ma condizionandola con un bombardamento di indicazioni. È un problema serio. Collegare il diritto alla privacy con l’esercizio dell’autonomia e avere maggior controllo sulle proprie scelte è fondamentale. La protezione della privacy è la protezione dell’identità personale, che è anche la protezione dell’autonomia dell’individuo, sarebbe bene pensare a una moderazione di costanti sollecitazioni. Oggi la regolamentazione su i sistemi di raccomandazione è praticamente inesistente, ogni azienda può regolarsi come vuole, nei limiti legali, non ci sono considerazioni sulla sovraesposizione, intrusione e pressione sull’individuo. Il problema diventa molto serio quando si parla di persone giovani che sono maggiormente malleabili e non hanno ancora un pensiero definito. Ci vorrebbe una legislazione presente e un’operazione sociale di protezione più seria di quanto abbiamo oggi».

È una manipolazione?

«Specifichiamo che la manipolazione sottende una certa intenzionalità e un fine. In questi casi il fine è puramente commerciale e non quello di modificare un pensiero. Ci sono gravi tentativi di manipolazione come la propaganda, ma non tutto quello che “spinge” e incentiva determinati comportamenti è manipolazione. Credo comunque, che la somma di un illimitato numero di operazioni costanti, che alla fine portano a una grande trasformazione nell’individuo, sia altrettanto grave della manipolazione politica ed economica che notiamo più palesemente».

Il fatto di essere categorizzati in base ai nostri gusti non porta alla semplificazione dell’individuo?

«Ciascuno di noi è inserito in un profilo che ovviamente ci va stretto, è una limitazione della tecnologia che tende ad una tipologizzazione dell’individuo, inserendolo in diverse categorie o “bolle”; con il tempo entreremo in sempre più categorie ritagliate su noi stessi. Il tentativo di questi strumenti e di questo modo di fare business è di arrivare a un punto in cui la bolla di informazioni entro cui ognuno si trova, diventi totalmente personale, costruita sartorialmente sull’individuo, che accederà a un pacchetto di informazioni personalizzato. Non so se ci arriveremo mai, ma è la tendenza di fondo».

Come uscire da questo riverbero dei propri interessi?

«Rendendo più competitivo il mondo che fa questo lavoro, in modo da differenziare la profilazione dell’individuo, le informazioni, e dare modo alle aziende di migliorarsi a vicenda. Attraverso l’educazione da parte della società che deve insegnare agli individui a saper scegliere. Infine con una cornice legislativa oltre la quale non si possa operare, che sia uguale per tutti e protegga dall’abuso di sistemi d’informazione che influenzano l’individuo. È necessario mettere questi tre elementi insieme, oggi nessuno di questi viene seguito in modo adeguato, ma c’è una strada che si può intraprendere, più scelte fondamentali personali a monte, e meno opzioni predeterminate da altri a valle».

Nel suo libro Il Verde e il Blu parla di come il digitale deve esse messo a servizio della politica dell’economia.

«Oggi siamo in una doppia sfida dove il mondo digitale sta diventando parte del problema e non della soluzione in tutti gli ambienti: sociale, economico, politico. L’idea è cercare di mettere due elementi in rapporto tra loro, in modo tale che si approcci il digitale da un punto di vista ecologico, quindi un’ecologia del digitale dove il verde aiuta il blu e viceversa.  Oggi con le tecnologie digitali abbiamo la possibilità di fare un grande lavoro di crescita sia sociale sia economica, che vada a favore e non a discapito dell’ambiente. In Europa abbiamo iniziato questo percorso, ma il resto del mondo non sta andando in questa direzione».

Cosa si intende per etica del digitale?

«È la nostra sfida di oggi. Per la prima volta nella storia umana, grazie all’intelligenza artificiale, ci troviamo davanti allo scollamento della capacità di agire con successo in vista di un fine, dalla necessità di essere intelligenti nel farlo. Abbiamo sempre fatto uso dell’intelligenza biologica per agire e per la prima volta abbiamo diverse forme di capacità di azione, che pur senza intelligenza hanno successo. È in questo scollamento che si pongono molti dei problemi dell’etica del digitale, una strada nuova da intraprendere e ridisegnare. Non si vive solo di esperienze fatte, ma anche di nuove possibilità. Abbiamo trasformato il mondo a misura delle macchine, adattando l’ambiente alle loro capacità; la tecnologia non ci deve limitare in base alle sue possibilità, ma dobbiamo modificarla, capire come funzionano i meccanismi, così da avere modo di capire come modificarli a favore dell’umanità e dell’ambiente, questo è il futuro».