Intervista ad Ettore Corradi «Si possono curare tutti?»

Di Federica Colombo

Per una laureanda in medicina come me avere l’opportunità di discutere con un medico più esperto è sempre un grande piacere. Iniziamo il 2021 con la speranza che questa tremenda pandemia possa mollare la presa e restituirci una parvenza di normalità. Possiamo già provare a guardarci indietro, provando a trarre le somme di questi durissimi mesi.

Ne ho discusso in video call con il dottor Ettore Corradi, direttore della struttura complessa di Dietetica e Nutrizione Clinica, Centro per la cura dei Disturbi del Comportamento Alimentare della ASST Grande ospedale metropolitano Niguarda di Milano.

Una discussione di quelle che sarebbe stata fantastica davanti ad un caffè. Mi ero preparata una traccia da seguire. Quali domande rivolgerebbe ai nostri governatori? Quali ai colleghi virologi o ai no-vax?

In poche frasi mi è stato chiaro come un tema vario e complesso non potesse essere mortificato da domande standardizzate. In un flusso di idee, il dottor Corradi ha subito chiarito come non fossero importanti le domande che avrebbe voluto proporre, ma «quelle che non sono state poste».

Iniziando dalla più dolorosa.

Possiamo curare tutti?

«In una società abituata all’illusione di dominare la morte, la pandemia ha sconvolto la falsa certezza che la medicina, il sistema sanitario nazionale, potesse farsi carico di tutti. La realtà cruda è che le risorse sono limitate, le strutture sono limitate, il personale è limitato e la richiesta di cura è sempre più imponente. Il Covid 19 ha esacerbato una realtà che si andava comunque delineando nel tempo. Occorrerà investire in strutture, formare il personale, ma anche interrogarsi, e comprendere, che non sempre si può davvero guarire tutti».

Esiste quindi un criterio per scegliere a chi destinare le cure?

«Per un medico dover farsi carico di scegliere tra un paziente e l’altro è una profonda ferita umana e professionale. Tuttavia, la pandemia ha mostrato come destinare centinaia di posti letto a malati Covid abbia portato, e porterà, alla necessità di lasciare indietro pazienti cronici, che magari avrebbero avuto migliori opportunità di cura con le giuste terapie. Solo analizzando i dati di mortalità di questi mesi per le differenti patologie, non Covid, potremmo avere nei prossimi mesi la giusta prospettiva di analisi. Esiste una cosa giusta? Un anziano pluripatologico o un 35enne oncologico? Accettare di lasciar andare un anziano o un altro malato non può essere scelta di un medico, né di un direttore di un’azienda sanitaria né del governatore. Riflettere sull’etica, sul fine vita, sulla realtà della morte, e la sua conseguente accettazione è un compito che una società matura dovrebbe darsi prima di tutto a livello culturale. In una democrazia, si deve correttamente passare da un confronto con i cittadini, ma è essenziale che questi vengano istruiti e informati, abbiano quindi gli strumenti corretti per poter maturare una propria convinzione».

Lo stesso discorso si può estendere ai vaccini?

«Sì, perché la pandemia è una crisi sanitaria ma anche economica e sociale. Non è un mistero che migliaia di posti di lavoro andranno persi, che il dissesto economico può generare danni e sofferenza, così come la perdita di vite umane. Potrebbe avere senso vaccinare la popolazione lavorativamente più esposta rispetto alla priorità assoluta degli anziani in RSA, al fine di permettere una sorta di ripartenza economica? Si tratta a questo punto anche di una scelta politica che deve saper cogliere il sentire della popolazione».

Vita a tutti i costi?

«Un punto che non è mai stato portato alla luce del pubblico è come molti pazienti anziani e intubati escano dalla fase acuta della malattia. Nessuno ha mai parlato di danni neurologici, osteomuscolari, cognitivi. Come in altre patologie si dovrebbe riflettere sul valore di una vita a tutti i costi, rispetto a una buona qualità della vita».

I cittadini sono pronti?

«Al netto delle precedenti valutazioni, no. Le persone devono essere informate adeguatamente, altrimenti non avranno i mezzi per poter decidere o avere una critica costruttiva. Ultimamente sembra che la miglior soluzione alla complessità delle cose sia la semplificazione, ma questo non è vero perché invece sono i processi di sintesi e non di semplificazione che ci aiuteranno a uscire dai problemi».

E i no-vax? Gli scettici? Perché non si riesce a convincerli?

«Il punto è che, preferendo la semplificazione dei problemi all’analisi di questi ultimi, si dà l’impressione che tutti siano sullo stesso piano. Assistiamo a un mancato riconoscimento della professionalità. Questo processo era già in atto da molto tempo. Non è comprensibile perché un medico debba arrogarsi il ruolo dell’ingegnere e viceversa. L’ignoranza rende le persone convinte di essere sullo stesso piano di un professionista, e quando non sanno spiegarsi qualcosa, optano per la scelta più semplice, il questo caso il complottismo e la negazione».

Il problema è stata la comunicazione quindi?

«Si sarebbe dovuto adottare uno stile comunicativo rigoroso. I virologi avrebbero dovuto discutere di virus e lasciare agli epidemiologi la valutazione delle curve epidemiche e agli igienisti la corretta istruzione dei cittadini alle norme di comportamento. Il tutto inserito in un contesto adeguato. Un medico non può dialogare sullo stesso piano di un giornalista in un talk show, per il semplice fatto che sono professionisti di campi diversi. Meno populismo, più coordinamento. Per i cittadini avere numerose fonti discordanti è destabilizzante».

Che ruolo dovrebbe avere un governatore?

«Ai politici è lasciato il compito di assumersi il peso delle scelte, difficili. Nessuno dei nostri attuali rappresentanti si è tirato indietro, pur con diversi scivoloni e prese di posizione evidentemente diverse. È chiaro che in politica occorra fare un bilancio tra tutti i fattori. E anche in questo caso, a volte si è sottostimata l’importanza di rivolgersi a un esperto che fornisse direttive adeguate all’emergenza sanitaria, a prescindere dalle ricadute sul consenso».

Quali saranno le conseguenze?

«Stiamo già assistendo a un aumento del disagio psicologico e della patologia psichica dell’età evolutiva. La pandemia ha mostrato l’importanza di mantenere le relazioni sociali e gli affetti. Si veniva a morire in ospedale, e ora che in ospedale si muore di Covid, si realizza quanto sia fondamentale essere vicini ai propri cari in quel momento. E forse sarebbe il momento di porsi la domanda se sia sempre opportuno medicalizzare la morte. Tornando alle conseguenze sanitarie e politiche, sarebbe auspicabile che l’impulso avviato apra un vero confronto sulla sanità e sulla gestione delle cure».

Siamo costretti ad affrontare una riduzione della nostra libertà personale. Saremmo disposti a fare lo stesso per altre patologie, per esempio, smettere di usare l’auto per prevenire il tumore al polmone?

«Ci siamo abituati a limitare i nostri spostamenti e a indossare le mascherine in virtù di norme sanitarie validate scientificamente. È interessante interrogarsi che comportamenti indurrebbe nella popolazione se lo stesso sistema di limitazione delle libertà personali venisse proposto per un tumore o un’altra patologia per cui esistono altrettanti comprovati mezzi di prevenzione. Non è difficile da immaginare che senza il deterrente della paura per una malattia acuta, nessuno accetterebbe le stesse norme di comportamento».

Comunicazione, istruzione, riflessione. Speriamo di ripartire da qui.