Di Alice Nebbia
Il dottor Pietro Bartolo è medico e politico, europarlamentare dal 2019. Dopo aver conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia, con specializzazione in Ginecologia, è stato dirigente medico presso il Presidio di Lampedusa, dove si è occupato in prima linea del soccorso ai migranti. Insignito di numerose onorificenze, il dottor Bartolo da molti anni porta avanti la sua testimonianza sulla realtà di Lampedusa, cercando di dar voce a centinaia di migranti, privati dei loro diritti e vittime ingiuste di pregiudizi che spesso inquinano la nostra società.
«Se smettessimo di fingere», questo è il fil rouge del nuovo numero del nostro giornale… Se smettessimo di fingere nella vita quotidiana, sul lavoro, sulla malattia, sul clima e anche su un tema così importante come l’immigrazione. Su questo Lei non ha finto. È difficile non fingere?
«Sul tema dell’immigrazione ammetto sia difficile, anche perché si parla di persone che spesso non hanno diritti; abbandonate, emarginate, trattate più come numeri che come esseri umani. Quanto alla malattia, credo che anche qui sia complicata la questione. Come medico, penso soprattutto ai giovani che convivono con gravi patologie, magari croniche, che necessitano di grande attenzione. Ipertensione, diabete giovanile in particolare. Quest’ultimo è difficile da trattare anche per noi medici e si ripercuote nella vita di un giovane individuo in grandi privazioni. Bisogna dedicarsi con grande attenzione a queste cose».

La Storia Di Kebrat
Nella Sua professione di medico, ha mai dovuto fingere?
«Anche qui la faccenda è delicata. In ogni caso, ritengo sia sempre opportuno dire le cose come stanno, anche perché se la persona che sta dall’altra parte è un amico, un compagno o comunque un proprio caro, credo sia giusto dire la verità, anche per una questione di rispetto. Altrimenti non è una vera amicizia, non è un vero amore».
Sono rimasta molto colpita dalla foto che ritrae Lei e Kebrat, la ragazza creduta morta dopo il naufragio, che Lei ha salvato. Un abbraccio bellissimo, un inno alla vita. Ci può raccontare la vicenda?
«Quando ho rivisto Kebrat, non l’avevo riconosciuta. Anche perché la prima volta che l’ho vista era in un sacco dove solitamente si collocano i cadaveri. Odio quei sacchi, mi fa paura vederli, perché non so mai cosa ci trovo dentro. Poi, il 3 ottobre 2013, giorno del naufragio di un’imbarcazione a poche miglia dal porto di Lampedusa, mi vengono consegnati quattro sacchi con quattro cadaveri. Tre erano morti certi data la rigidità cadaverica. Lei era assieme a quei tre. Credevo fosse morta da poco… mezz’ora forse, oppure un’ora perché non aveva ancora raggiunto la rigidità. Ho aperto quel sacco, ho controllato. Ho preso il polso e mi è sembrato di sentire un battito. Ho aspettato a lungo perché volevo risentire quel battito, che poi finalmente è arrivato. Kebrat era viva. Ricordo che con un mio amico l’abbiamo presa in braccio e trasportata di corsa su un’autoambulanza. L’abbiamo intubata, massaggiata e poi trasferita a Palermo dove vi è rimasta per più di quaranta giorni. Qualsiasi cosa pur di salvarla. Quel giorno erano morte 368 persone, lo ricorderò per sempre. Una sconfitta. Ma io la vita di Kebrat ero riuscito a salvarla. Dicono che chi salva una vita salva il mondo intero. E quella per me ha rappresentato una grande vittoria. In occasione della ricorrenza del 3 ottobre di qualche anno fa, una data a cui sono molto legato, ho rivisto Kebrat. È diventata una bellissima ragazza, una bellissima mamma. Mi è corsa incontro e mi ha detto: “Sono Kebrat, quella che hai salvato”. Ci siamo abbracciati. Ho ancora i brividi. Ci siamo tenuti stretti per dieci minuti».

Basta Fingere. È Tempo Di Agire
Lei è Europarlamentare, che cosa l’ha avvicinata al mondo della politica?
«A dire il vero, non avrei mai pensato di diventare Europarlamentare, così come di diventare scrittore e attore! Però dopo venticinque anni spesi ad ascoltare, a curare, a toccare con mano lo strazio di molte persone, con me stesso dicevo: “Dai Pietro, qualcosa prima o poi cambierà”, ma non cambiava nulla. Niente di niente. E io mi sentivo in difetto, mi sentivo di non poter fare mai abbastanza. Allora mi sono aggrappato a tutto e tutti perché era mia responsabilità e dovere testimoniare la realtà di Lampedusa. E così ho iniziato. Prima grazie a Gianfranco Rosi, al meraviglioso documentario Fuocoammare, che racconta l’isola di Lampedusa e la tragedia delle migrazioni. Poi il film Nour, con Sergio Castellitto. Ho scritto libri, Lacrime di sale, Le stelle di Lampedusa, raccontando le storie e le vite di queste persone. Ho girato per anni andando nelle scuole, portando la mia testimonianza ovunque; per sensibilizzare, per avvicinare la gente a questa realtà. Fare sapere al mondo la verità per contrastare la narrazione spesso falsa e mendace, che vede i migranti solo vittime di feroci pregiudizi ed enormi ingiustizie. Ma ancora non era abbastanza, non funzionava, era solo informazione. E così mi sono avvicinato alla politica. Con il pensiero rivolto alla politica vera, autentica. Quella che viene fatta con passione, onestà, correttezza. Quella al servizio dell’uomo, in cui io credo fortemente. Grazie agli italiani, ho ottenuto un enorme consenso, che mi ha spinto a dover dare delle risposte alla gente e che mi ha portato ad arrivare al Parlamento Europeo. Sì, all’Europa. Dove da lì si devono dare delle risposte concrete. Non con il contrasto, ma governando il sistema migratorio con intelligenza e lungimiranza. Perché con il contrasto non si arriva da nessuna parte. Bisogna cambiare il registro, facendo capire che i migranti non sono un problema ma una ricchezza culturale, un tesoro, un’opportunità. Noi, italiani stessi, siamo stati migranti in America, Argentina, Australia; abbiamo sofferto ma abbiamo fatto grandi quei Paesi, anche grazie al nostro contributo. Siamo stati migranti, ma ancor prima, non dimentichiamocelo, siamo tutte persone».
È possibile immaginare una politica senza finzioni?
«La politica deve occuparsi dei problemi e deve parlarne apertamente. È giusto che i politici e le istituzioni, se c’è un problema, si siedano attorno a un tavolo, ne discutano e operino insieme per trovare una soluzione. Non bisogna fingere, bisogna agire. E l’Europa questo l’ha capito. Un anno fa, come adesso, non avrei pensato che fosse così unita per fronteggiare la pandemia del Covid e tutti i problemi sociali ed economici che ne derivano. In un primo momento qualche Stato si era messo per traverso, ma poi ha compreso che il virus è un problema europeo e ha cambiato strategia, mettendo a disposizione strumenti e denaro per arginare la pandemia, sia dal punto di vista sanitario, sia per i disagi sociali ed economici che ha generato. Lo stesso deve valere per il fenomeno dell’immigrazione. Un fenomeno che deve essere affrontato da tutta l’Europa e non solo da alcuni Stati membri, quelli che sono definiti di primo approdo quali l’Italia, la Spagna, Malta, Cipro e la Grecia».

Solidarietà E Responsabilità Per Una Società Equa
Su quali valori, secondo Lei, si dovrebbe fondare la società odierna?
«La società odierna, come dice il Papa, si deve fondare sulla solidarietà, sulla condivisione delle responsabilità – questo peraltro è previsto dalla nostra Costituzione e dai trattati europei – e, infine, sul rispetto degli altri. Rispetto per me è una parola straordinaria e grandiosa, perché include in sé tutto: amore, accoglienza, rispetto per gli altri, per i diritti umani, per il diritto alla vita, per il diverso, per gli amici, per gli avversari. Rispetto anche per l’ambiente e la Natura, che purtroppo stiamo perdendo. È proprio questa noncuranza la causa dei prepotenti cambiamenti climatici cui siamo testimoni. Pensiamo ai migranti climatici, persone che migrano per via delle siccità, delle forti alluvioni che noi stessi abbiamo causato, mancando di rispetto alla nostra Terra. Non c’è più tempo per aspettare, bisogna subito intervenire».
Intrecciare solidarietà e responsabilità è possibile? Sarebbe forse la base per una società più equa?
«Certo, deve essere così. L’articolo 80 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea parla proprio di solidarietà e condivisione delle responsabilità tra gli Stati membri. Se riusciamo a coniugare questi valori e a lasciare da parte l’egoismo, facciamo un buon servizio e un grande onore all’intera umanità. La ricchezza, il potere, il denaro non ce li portiamo da nessuna parte. La nostra dignità invece sì. Poter dire, un domani: “Sì, ho fatto il mio dovere” e vederlo riconosciuto dagli altri, poter assistere a una società che mette al centro l’uomo dignitoso, poter garantire ad ognuno una vita dignitosa, perché è un diritto… Beh, credo sia questa la strada giusta da imboccare».