L’Ultima Testimonianza Pubblica Di Liliana Segre

L’ultima commuovente testimonianza di Liliana Segre alla Cittadella della Pace di Arezzo. Ce la racconta Emanuela Niada.

Di Emanuela Niada

È stato molto commovente assistere alla Cittadella della Pace di Arezzo, all’ultima testimonianza pubblica di Liliana Segre, grande amica di mia mamma. Liliana era circondata dalle massime cariche dello Stato e da centinaia di persone, in collegamento con centinaia di migliaia di altri in streaming e su vari canali tv internazionali e media. Dopo trent’anni di racconti nelle scuole della sua storia, Liliana ha scelto di passare il testimone ai ragazzi della fondazione Rondine, «presa venti anni fa da un incantamento», quando conobbe questa realtà che mette a confronto giovani provenienti da popoli in conflitto, come attori di pace per un cambiamento effettivo.

Memoria Contro L’Indifferenza

La cerimonia ha avuto inizio con il taglio del nastro dell’Arena di Janine da parte di Liliana davanti a un’opera altamente simbolica: l’ombra di un cancello dipinta a terra che rappresenta la possibilità di calpestarlo, oltrepassandolo. Raffigura la cancellata di una pacifica villa toscana, come contraltare a quella minacciosa di Auschwitz. Era riportata la sua frase: «Ho scelto la vita e sono diventata libera». L’Arena diventerà un luogo di aggregazione di giovani, per coltivare la memoria contro l’indifferenza. La ministra dell’Istruzione Azzolina lancerà un bando di concorso insieme a Rondine- Cittadella della Pace, dal titolo Voltati, Janine vive!, per educare i giovani al rispetto delle differenze contro violenza e discriminazioni. Liliana non ha mai dimenticato l’amica del lager, Janine, che lei non ebbe la forza di voltarsi a salutare nel momento in cui venne condannata a morte e si rimprovera ancora oggi quel suo gesto di indifferenza, che ha definito «orribile, fatto da un non-essere che aveva perso la dignità». Colpisce che Liliana consideri quella sua omissione una grande colpa, dato il contesto di brutalità e disumanità, che le consentiva a mala pena di conservare le energie per sopravvivere. Lei stessa ha subito tanta indifferenza, in varie situazioni: quando fu espulsa da scuola per le leggi razziali, quando visse nascosta nel tentativo fallito di fuga in Svizzera, in carcere, in viaggio sul carro bestiame, durante la vita atroce nel lager e da tutti i civili e i contadini che evitavano e ignoravano i detenuti che si recavano in fabbrica e che poi compirono la marcia della morte per chilometri. Forse nessuno all’epoca riusciva a concepire un tale orrore, solo dopo tanti anni assunse i connotati più truci e veritieri.

Questa distinta signora di novant’anni, di grande dignità e carisma, si considera ormai la nonna di quella «tredicenne sciocchina, piccolo-borghese, non particolarmente intelligente», di cui conserva un ricordo struggente soprattutto quando era diventata «insensibile e selvaggia per colpa di quei mostri» che l’hanno schiavizzata, costretta a lavorare come operaia nella fabbrica di munizioni Union. Descrive con distacco e lucidità tutte le umiliazioni subite nel lager, dal taglio dei capelli a zero, al numero tatuato sul braccio (75190), che sostituiva il nome (dal significato speciale nella tradizione ebraica) e che bisognava subito imparare a memoria in tedesco, pena la morte, se non si rispondeva all’appello. Ma il trauma più spaventoso fu quando dovette lasciare la mano di suo padre. Continuò a cercarlo, ma non lo rivide mai più. Liliana superò ben 3 selezioni che le consentirono di vivere e poi testimoniare. Ha attraversato l’Inferno insieme a quei poveri dannati scheletrici che si trascinavano nella neve, affamati, ammalati, piagati, con la prospettiva di morire prima o poi per un gesto sbagliato. Tutto era assurdo, inconcepibile, senza senso. L’unica colpa era essere nata ebrea. Era il Male Assoluto. Nel 1942 a Berlino, durante la Conferenza di Wansee, alti ufficiali e burocrati nazisti coordinarono l’attuazione della soluzione finale della questione ebraica. «Tutto pianificato meticolosamente, non si trattava di un gesto di rabbia», osserva Liliana.

L’Ultima Testimonianza Di Liliana Segre

Ho riflettuto sulla parabola di vita di questa donna straordinaria. Il valore più grande che traspare nella sua esistenza è l’amore per la sua famiglia e soprattutto per l’adorato padre, che si sentiva di proteggere e di cui avvertiva la sofferenza per la responsabilità verso gli anziani genitori e per l’impotenza nel non riuscire a salvare lei, sua figlia, il suo tesoro. Le mancò l’affetto materno, rimasta orfana da piccolina e poi soffrì perché le amichette e la maestra la ignorarono, non si accorsero del suo banco vuoto. Non voleva più affezionarsi a nessuno, non sopportava i distacchi. Nonostante la vita e il trattamento brutale subito, Liliana narra in modo asciutto, imparziale, fotografa quella realtà mostruosa, senza esprimere odio, rancore. Ricorda di aver ricevuto calore umano ed empatia solo in due occasioni. La prima volta all’uscita di San Vittore, prima di salire sui vagoni piombati, verso ignota destinazione, quando i carcerati lanciarono loro arance, mele, sciarpe e benedizioni e la seconda verso la fine della guerra, dopo la «marcia della morte», quando incontrò dei giovani prigionieri francesi che si preoccuparono per le condizioni fisiche sue e delle sue amiche, ormai stremate, ridotte a fantasmi: «Non dovete morire proprio adesso che la guerra sta finendo, i tedeschi sono vinti e gli alleati stanno arrivando».

La grande lezione di Liliana a tutti noi, a cominciare dalle alte cariche dello Stato presenti e dalla folla di giovani ammutoliti, con gli occhi pieni di lacrime, è stata di aver espresso la sua Umanità, prima di un’ingenua ragazzina, poi di una schiava alienata e abbrutita dalle atrocità. Ha raccontato dell’egoismo e della mancanza di solidarietà tra i prigionieri del lager, sicuramente giustificati dalle condizioni di sopravvivenza. In ogni sua parola traspare l’entusiasmo per la vita, condivisa da tanti internati. «In pochi si suicidarono, contro il filo spinato era molto facile attuarlo».Per tutto il tempo della prigionia i deportati non sapevano nulla né di ciò che avveniva fuori, né di quello che sarebbe stato il loro destino, solo intuito dalle stragi quotidiane, dai mucchi di cadaveri e dalle ciminiere sempre in funzione. Nel gennaio del ’45 iniziarono a sentire degli aerei sopra la fabbrica, ma non capivano. Erano convinti della grande potenza dei nazisti per via della loro sfrontatezza e arroganza quando in branco, ma codardi da soli. «I nazisti avevano la sicurezza di essere superiori, ma appartenevano alla razza umana? No. Non ho dimenticato e non riesco a perdonare», racconta Liliana. Anche queste affermazioni denotano la sua umanità. Non è una superdonna, ma una persona ferita che ha però saputo costruire una famiglia con figli e nipoti, estendendo il suo messaggio a centinaia di migliaia di «nipoti ideali» cui non si è stancata di ripetere, negli ultimi trent’anni, la sua storia.

Scegliere La Pace

«I russi avevano rotto il fronte est e dovevamo partire, prepararci alla marcia. Eravamo denutrite, con i piedi piagati. Fu una fatica terribile. Chi si fermava riceveva un colpo in testa. E noi camminammo per circa cento chilometri in tre mesi, senza cibo né riparo, frugavamo nei letamai, ci nutrivamo d’erba, un giorno mangiammo la carne cruda di un cavallo morto. Eravamo orribili». «Adesso dico agli adolescenti che noi esseri umani siamo fortissimi. I ragazzi hanno la forza della natura. La vita può essere difficile, ma non dobbiamo mai dare la colpa agli altri. La gente che ha fame viene nel mondo occidentale per mangiare, lavorare. A Milano si buttano via tonnellate di cibo e nel nostro frigorifero dobbiamo scegliere ciò che sta per scadere, non quello che preferiamo in quel momento».

Liliana conclude con la scena nell’ultimo campo di sterminio dove arrivarono al termine della marcia. A questo punto le guardie avevano paura delle prigioniere, perché testimoni delle loro nefandezze. Il crudele Comandante del campo alto usava frustare i detenuti col nerbo di bue. Ma lì se lo trovò davanti in mutande, che cercava di vestirsi in abiti civili per scappare. Buttò via la divisa, con la pistola. «Io, che ero ormai da anni nutrita di odio e vendetta dopo che ebbi lasciato la mano di mio padre, ero un essere insensibile, pensai di sparare. Sarebbe stato il giusto finale. Fu un attimo importantissimo. Mai avrei potuto farlo. Da quel momento sono diventata libera e ho scelto la pace».