Intervista A Nicolò Govoni Cofondatore Della ONG Still I Rise

Nicolò Govoni, candidato al premio Nobel per la pace e cofondatore della ONG Still I rise.

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Di Annagiulia Dallera

«Celebrare la vita e farne il miglior uso possibile», è il suo mantra. E di sicuro Nicolò Govoni, candidato al premio Nobel per la pace e vincitore del premio CIDU per i Diritti Umani, lo sta rispettando. Nato a Cremona 27 anni fa, è cofondatore della ONG Still I rise, con la quale ha dato vita a Samos alla prima scuola per bambini profughi: Mazì.  

Perché proprio Samos?

«A Samos c’era un campo in cui migliaia di persone vivevano intrappolate senza diritti, senza rappresentazione legale, assistenza medica, cibo o istruzione. Ai minori era negato tutto, in particolare l’educazione e quindi la nostra risposta è stata creare una ONLUS indipendente che potesse ovviare a questo problema».

Che cosa distingue la tua ONG dalle altre?

«Still I Rise è diversa da molte altre perché è nata dal basso, da dei volontari, non da una cerchia di manager. Tutta la nostra direzione prende un rimborso spese di massimo 400/500 euro al mese. Vogliamo lanciare il messaggio che si può fare cooperazione internazionale anche a livello medio, senza prendere stipendi da 10.000 euro al mese. Spesso nel mondo della cooperazione si predilige l’emergenza perché ci sono più fondi e più interessi in gioco. Noi invece, cerchiamo di fare progetti a medio, a lungo o lunghissimo termine che sono molto rari in questo ambiente, perché implicano più impegno e più rischio».

Logo di Still I rise

Perché avete scelto di non ricevere fondi governativi?

«Abbiamo fatto questa scelta per non dover rendere conto a nessuno. A Samos abbiamo riscontrato delle gravi mancanze da parte delle organizzazioni che avrebbero dovuto gestire questo campo e i profughi. Ci siamo detti che volevamo fare aiuto umanitario in modo più etico, scardinarci dalle regole di questo business: poter utilizzare i fondi che ci vengono donati nel modo più efficiente e appropriato, ma anche far sensibilizzazione senza dover smorzare i toni».

Tu parli spesso di «volonturismo» e «volontalento». Ci puoi spiegare la differenza?

«Ho cominciato il mio viaggio nel volontariato 7 anni fa, quando con un’organizzazione internazionale sono partito per l’India per lavorare in un orfanotrofio. Mi sono reso conto che il mio apporto lì non era necessario. In più, gran parte di quello che avevo pagato all’organizzazione, all’orfanotrofio non arrivò mai. Il volonturismo è un business da miliardi di dollari che coinvolge centinaia di migliaia di ragazzi che vengono strumentalizzati e mandati a fare delle vacanze con una declinazione benefica. Il volontariato etico non ti chiede soldi. Altrimenti vuol dire che stai pagando il privilegio di poter fare qualcosa per cui non avresti le capacità necessarie».

Come vengono scelti i vostri volontari?

«I candidati rispondono a delle domande attitudinali che vengono poi prese in considerazione dalla nostra esperta di risorse umane. Se passi il test, parte il colloquio di lavoro su Skype. Infine, c’è una parte di training da fare a casa e poi una seconda fase intensiva da svolgere sul campo. Prendiamo delle persone che hanno già delle qualifiche, dell’esperienza o certificazioni particolari. Questo garantisce un servizio sicuro e prevedibile».

Nicolò Govoni (Fonte immagine: https://www.oltre-giuliomusmeci.com/nicolo-govoni-la-straordinaria-storia/)

Perché il volontario non viene visto come una professione? Come si può far cambiare idea alla gente?

«Viene fatta spesso confusione tra le varie denominazioni: essere un cooperante non vuol dire essere un volontario. Una persona che aiuta gli altri non necessariamente deve farlo gratis. Non c’è differenza di abilità, di carattere morale o etico tra fare volontariato o cooperazione. Semplicemente non sono la stessa cosa. Spesso l’opposizione nei confronti delle ONG viene corroborata anche e soprattutto dai media: dovrebbero fare il loro lavoro di informatori e di facilitatori della comprensione del pubblico, invece che fare solo audience».

Come ti è venuta l’idea di Mazì?

«È nata perché nel 2017/2018 io e Sara, la mia collaboratrice, insegnavamo a un gruppo di bambini i rudimenti di inglese, matematica, geografia e storia. Lo abbiamo fatto per 9 mesi. A un certo punto la classe era piena. Allora con Still I rise abbiamo deciso di aprire delle scuole, come Mazì, nei luoghi caldi dell’immigrazione».

Come funziona il sistema educativo di Mazì?

«Mazì non è solo una scuola ma è molto altro: è vita. Le lezioni durano 45 minuti e dopo si ha mezz’ora di pausa nella sala comune dove c’è uno scambio di informazioni importante quanto quello in classe. Il nostro metodo educativo si basa sull’idea che “scuola è casa”: vai a scuola perché ci vivi».

Secondo te un metodo di questo tipo potrebbe influenzare anche il nostro sistema scolastico?

«Mi piacerebbe che il modello educativo efficace, economico e facile da implementare di Still I rise potesse ispirare la scuola pubblica che ha sicuramente bisogno di riforme. Lo dicono gli insegnanti, i genitori e gli studenti. Gli unici a non dirlo sono i rappresentanti della classe dirigente. Mi piacerebbe che una scuola pubblica fosse casa, dove gli insegnanti sono mentori, perché non ne hanno bisogno solo i bambini profughi, ma tutti i bambini del mondo».

Scuola Mazì (Fonte immagine: https://www.nuoveradici.world/articoli/samos-mazi-la-scuola-da-nobel-nel-buco-nero-delleuropa/)

Tu sei stato definito un «caso difficile» a scuola e hai detto di aver sempre sofferto di ansia. Che cosa consiglieresti ai giovani che soffrono di questi problemi?

«Do un primo consiglio ai genitori, agli insegnanti: questi ragazzi non hanno bisogno dei vostri consigli, o di essere aggiustati. Hanno solo bisogno di essere ascoltati. I vostri figli, i vostri studenti vi saranno più riconoscenti se cercherete di ascoltarli senza giudicarli e senza forzare la vostra opinione su di loro. Alle volte la soluzione non c’è. L’ansia è irrazionale, ma tutto passa. Il dolore di oggi, anche se può sembrare infinito, è temporaneo. Una volta che hai la convinzione che se ne andrà via, allora è il momento in cui puoi rimetterti in gioco».

Che cos’è per te la paura?

«La paura deve essere un’amica nella nostra vita perché aiuta in molti casi. Se un sogno ti fa paura vuol dire che è grande abbastanza, che ha valore e deve essere inseguito. Ti motiva a una sfida interiore che puoi superare. Tutti dovremmo imparare ad accettarla, metabolizzarla e affrontarla, perché non c’è niente di sbagliato nell’avere paura».

Che cos’è per te la felicità?

«Still I rise penso che sia un’opera molto felice. È stato un anno difficile a causa del coronavirus, ma nonostante tutto, i nostri progetti sono quelli che mi hanno fatto andare avanti. Penso che essere felice e sentirsi bene in quello che si fa sia il sale di qualsiasi tipo di lavoro».