Eugenio Borgna, uno dei maggiori psichiatri italiani, è lì. È come se ci stesse aspettando. Rende tutto facile, accessibile. Il cercarlo, il contattarlo, il parlarci. La semplicità del sapere fa anche soggezione. Ma il professor Borgna ascolta, accoglie, abbraccia. E il suo sì al Bullone, è un sì di uomo che ti fa stare bene.
A prescindere. Rubando il titolo di un suo libro, possiamo dire che è un fiume della vita da percorrere con lui, da ascoltare i rumori, da immergersi.
Di Edoardo Grandi
Il lockdown per il coronavirus ha indubbiamente imposto dei cambiamenti importanti nella vita delle persone. Come pensa che abbia influito, sotto il profilo psicologico ed emotivo?
«Nel tempo del coronavirus sono riemersi cambiamenti di vita radicali, che ciascuno di noi ha vissuto in modi diversi, condizionati dalle esperienze interiori ed esteriori presenti in noi. La conseguenza immediata di questo nostro tempo è stata quella di averci indotti ad interrompere le nostre abituali relazioni sociali: non uscendo di casa se non con grandi limiti. Non siamo stati più liberi di fare scelte per noi abituali, e ci siamo confrontati con il tema della solitudine, soli con la nostra famiglia, e talora soli nella nostra famiglia. Ma, dal modo con cui è stata vissuta nel corso di queste settimane, la solitudine può essere stata fonte di riflessione, di silenzio interiore, di ascolto e colloquio, di paure motivate e di accoglienza della fragilità, o invece di ribellione interiore, di una solitudine che diveniva isolamento, di stanchezza di vivere, di noia, di dipendenza dalla televisione e dai social network, di paure generalizzate, che non ci hanno nemmeno più consentito di distinguere quelle motivate da quelle infondate, e che ci hanno confrontato con la paura della morte, inaridendo le emozioni gentili e dialogiche, e immergendoci in quelle egoistiche, e desertiche».
Grandi metropoli, cittadine di provincia e piccoli paesi. Quali sono secondo lei le maggiori differenze che si riscontrano nel vivere in queste diverse realtà?
«Nel vivere settimane di solitudine e di angoscia, come quelle che hanno cambiato il nostro modo di vivere, e di morire, l’abitare in grandi città o in piccole città, si è accompagnato a conseguenze psicologiche e sociali molto diverse. Nelle piccole città si sono più facilmente tenute vive amicizie e solidarietà, conoscenze personali e condivisioni di un comune destino, che hanno consentito di avere ancora sia pure fragili relazioni sociali».

Nelle grandi città si discute molto di verde e dell’ampliamento delle superfici ad esso dedicate. Crede che questo possa rappresentare un’occasione positiva per la qualità della vita nei grandi centri urbani, e come può influire il verde sullo stato d’animo delle persone?
«La mia risposta è ancora più semplice, e immediata. La solitudine in una grande città si converte facilmente in isolamento, che incenerisce la vita emozionale, la solidarietà, e la reciproca comprensione. Gli spazi verdi, i giardini, il passeggiare, il guardare gli alberi e l’ascoltare i leopardiani passeri solitari, il dialogo anche silenzioso con le persone che si incontrano lungo i viali, cose che dovrebbero essere possibili anche in una grande città, hanno una grande importanza nel mantenere gli equilibri psicologici. Sono terapia».
Le restrizioni tuttora vigenti hanno mutato alcune abitudini consolidate, come poter andare al cinema, a teatro, o assistere a spettacoli. Pensa che questo abbia pesato in modo negativo sulla vita di relazione?
«Nel rispondere a questa domanda non posso ancora una volta non richiamarmi alle risonanze interiori causate dalle decisioni che ci sono state imposte. Le abbiamo vissute come necessarie, come indispensabili, non solo alla nostra salute, ma alla nostra vita, addirittura alla nostra sopravvivenza, o invece come espressione di leggerezza, e di dominio di aggressività e di strapotere? Se le abbiamo considerate, e lo sono state, necessarie e salvifiche, queste limitazioni (rimanere in casa, e di conseguenza non potere andare a teatro e al cinema) non sono state vissute come insostenibili, ma come la necessaria premessa a non contagiarci, e a non ammalarci».
Le metropoli hanno molto da offrire, ma forse chi è solo qui lo è ancora di più. Qual è la sua opinione a riguardo?
«Concordo con la tesi che la solitudine sia facilitata dalla vita in grandi città: dalle presenza in esse di periferie, ancora molto lontane dall’essere risanate, come i grandi urbanisti richiedono».
Gli anziani, oltre a essere stati i più colpiti dal punto di vista clinico, sono stati molto penalizzati sotto vari aspetti, dalle difficoltà nel fare la spesa, alla solitudine accentuata, ecc. Cosa si può fare per migliorare la loro vita?
«La risposta a questa domanda non è facile, e forse non è possibile, e questo perché sono impossibili le generalizzazioni. Ciascuno di noi vive la sua condizione anziana in misura diversa: essa dipende dall’essere, o dal non essere, malati; dall’essere, o dal non essere, autonomi economicamente; dall’essere, o dal non essere, in relazioni sociali. Certo, se si è anziani, si vive molto meglio in piccole città e in paesi, che non in grandi città divorate dai grattacieli».

Sempre in tema di anziani, in questo ultimo periodo i nonni si sono trovati spesso a dover fare da baby-sitter ai nipotini. Come giudica questo fenomeno?
«Non posso non giudicarlo in modo positivo. Fa bene psicologicamente alle persone anziane, e anche ai nipotini».
Molti giovani paiono aver dato scarsa attenzione alle norme di sicurezza, quasi negando la pericolosità del virus. Specialmente nelle grandi città, appena c’è stata una certa riapertura, i luoghi della cosiddetta «movida» si sono riempiti all’inverosimile di ragazzi, come non succedeva nemmeno prima. Cosa ne pensa?
«La solitudine imposta al fine di evitare i contagi e la malattia, è stata dolorosa e faticosa soprattutto negli adolescenti e nei giovani, inclini a non accogliere, o meglio ad accogliere malvolentieri, ogni forma di inattesa e improvvisa costrizione. A questo si aggiunga, direi, il sapere dai giornali e dalla televisione che il coronavirus non contagiava i giovani. E allora, come meravigliarsi che questi si siano sentiti in qualche modo autorizzati a seguire modi di comportamento che mettevano in pericolo solo le persone anziane?».
Si può «guarire» dalla fragilità, o la si deve solo affrontare e imparare a gestirla?
«La fragilità, mi sono sempre interessato di questo tema, scrivendo ben più di un libro, è una condizione psicologica e umana che fa parte della vita; anche se si tende ingiustamente a considerarla come un disturbo, o come una malattia, dalla quale guarire. Non è così: non si deve andarne alla ricerca, ma la fragilità ci rende più sensibili e più attenti alle relazioni sociali, più aperti all’amicizia e alla solidarietà».
Cosa vorrebbe che cambiasse nella vita delle nostre città?
«Nella vita delle nostre città, delle grandi e delle piccole, vorrei che crescesse la coscienza delle nostre fragilità, e l’attenzione alle solitudini e alle ferite dell’anima, alle attese e alle speranze che sono in noi e nelle persone che il destino ci fa incontrare, non lasciandoci mai divorare dall’egoismo e dagli interessi personali».