Di Cinzia Farina
Anni fa in un viaggio in Sudafrica una richiesta interiore mi spinse a visitare, ma soprattutto a far conoscere ai miei bambini, Robben Island, piccola isola-prigione, dove il premio Nobel Nelson Mandela trascorse quasi ventisette anni (non consecutivi) della sua esistenza, dopo essere stato accusato nel 1964 di pianificare la guerriglia contro il regime.

Robben Island
A Robben Island nacquero la resistenza e l’opposizione internazionale al regime sudafricano. La destra razzista nel 1948 vinse le elezioni e impose una separazione completa delle razze. Il movimento di liberazione dei neri nel 1960 venne posto fuori legge e i suoi membri furono perseguitati, incarcerati e spesso uccisi dalla polizia sudafricana. Le condizioni di vita di quelli che venivano deportati sull’isola non erano certo facili: «lavori forzati, pestaggi, isolamento e in inverno i detenuti indossavano vestiti leggeri nonostante i venti gelidi che arrivavano dal Polo Sud».
Un traghetto dal molo di Cape Town ci portò sull’isola, dove ci aspettava un pulmino con un autista e una guida, entrambi ex detenuti. Iniziò così il racconto esposto in prima persona da uno dei protagonisti. Già dalle prime parole si avvertivano brividi sulla pelle, e cercavo di scorgere una prima lettura negli occhi dei miei figli, che non erano mai stati così attenti a una spiegazione nei vari musei o luoghi visitati prima. Tutte le guide nominavano lo scomparso presidente chiamandolo: «nostro padre Mandela». Ogni oggetto animato e no del luogo sembrava volesse comunicare quel vissuto che custodiva. Gli alberi, i fili d’erba si muovevano lentamente accarezzati dal vento, come in rispettoso silenzio e anche il sole si inseriva in quel contesto per illuminare senza essere invadente.

Cella numero 5
Robben Island venne usata dal 1600 come carcere, prima anche come lebbrosario, ma divenne tristemente «conosciuta» nel XX secolo perché luogo di segregazione e di carcere duro degli oppositori al regime dell’apartheid. Dopo aver visitato la cava di pietra dove lavoravano i detenuti, e il cortile nel quale trascorrevano l’ora d’aria, entrammo nella storica cella numero 5: un minuscolo «buco» con un wc, una stuoia e un secchio, dove fu rinchiuso Nelson Mandela. Non potremo mai dimenticare il momento: nel luogo si respirava ancora la presenza palpabile del grande uomo che lo aveva occupato. Qui trascorreva gran parte delle sue giornate, in quell’istante vedevamo sopra di noi lo stesso fazzoletto di cielo che vedeva lui, avvertivamo la sua fame di giustizia, la storia emotiva della lotta per la democrazia e l’uguaglianza in Sudafrica.

L’ Università di Robben Island
Ricordo che i miei bambini si soffermarono all’interno come ipnotizzati da tutto quello che il luogo rappresentava. La guida proseguiva nel raccontarci che i prigionieri di colore ricevevano una razione di cibo inferiore rispetto ai prigionieri bianchi, ed erano privati del contatto con i loro cari, limitato a mezz’ora di visita all’anno di un membro della famiglia e solo due lettere. Mandela dovette spesso anche lavorare nella cava, e la polvere della calce bianca gli provocò danni permanenti alla vista. Lui leggeva molti testi e poemi, in particolare una poesia Invictus (Invincibile), che fu uno stimolo importante in quel suo continuare a sognare sempre negli anni più duri della prigionia. Incoraggiava i compagni a lavorare sul proprio sviluppo personale, venivano organizzate lezioni segrete su diversi argomenti. I prigionieri infatti, chiamavano l’isola anche Università di Robben Island. Mandela in quegli anni non ha mai smesso di credere in un nuovo Sudafrica.

Presidente Nelson Mandela
Ed è per questo che l’Unesco ha nominato quel luogo «trionfo dello spirito umano». I miei figli erano sempre più dentro alla storia, dove l’ingiustizia dei bianchi deteneva quasi tutto il potere in Sudafrica, e le varie etnie erano completamente emarginate. L’elezione democratica del Presidente Nelson Mandela nel 1994, segnò finalmente la fine dell’apartheid in Sudafrica. Il nostro viaggio si concluse con l’ultimo racconto di un ex carcerato mentre ci accompagnava al cancello d’uscita. Ci confidò che Mandela ripeteva spesso che i bambini sono la nostra parte migliore, e uno dei suoi più grossi rimpianti negli anni di prigionia, era stato non poter sentire il delizioso suono delle loro voci che ridono e giocano. Quello era il caro ex presidente, un «nonno» al quale sono affezionati tanti sudafricani nati liberi, cioè venuti al mondo nel nuovo Sudafrica post 1994 e cresciuti negli anni della sua presidenza.
Era per loro e lo era diventato da quel preciso momento anche per i miei figli: «l’uomo in maglietta batik che aveva portato la pace».