
Gianni Mura interpretato da Maurizio Crosetti
Di Edoardo Grandi
La semplice trattoria ha un’unica bizzarra concessione: in una delle sale c’è un tripudio di gadgets, tazze, ceramiche, t-shirt dedicati esclusivamente a maialini. A un tavolo mi aspetta un signore barbuto, dal fisico che rivela la sua passione e grande conoscenza della buona cucina. Sono un po’ in soggezione, è stato intervistato dal prestigioso giornale francese L’équipe, e adesso tocca a me. La sua immeritata fama di burbero svanisce appenainiziamo a chiacchierare.
Cosa ti è mancato in questo periodo di chiusura?
«La cosa più bella del calcio: il calcio. Tutto il resto spesso è solo chiacchiera, dibattito superfluo. La natura dello sport è fisicità: il gesto atletico, umano, emotivo. Queste sono le cose che contano. Mi è mancata la sua essenza, vedere i calciatori che giocano, i ciclisti che corrono, i tennisti che colpiscono la pallina con la racchetta. Insomma, lo sport in azione».
Domanda scontata: chi vuoi citare, tra le persone che più ti hanno influenzato nel tuo lavoro?
«Gianni Brera, naturalmente. L’ho sempre ritenuto un maestro irraggiungibile. Lo incontrai quando ero ragazzo nella sua casa in campagna: mi chiese di aiutarlo a raccogliere le uova delle galline, mettendomi in guardia da un’oca molto aggressiva, che secondo lui assomigliava fisicamente a De Gaulle, e infatti l’aveva soprannominata così. Era molto fantasioso, vedeva cose che gli altri non vedevano. Mi ascoltò come se io fossi stato qualcuno, cosa che non ero. Dopo la sua tragica morte in un incidente d’auto nel 1992, qualcuno disse da subito che ero l’erede di Brera, ma questo è profondamente ingiusto nei suoi confronti, Gianni era un fuoriclasse senza eredi. Mi sono solo sforzato di guardare lo sport con i suoi occhi, ho tentato di mantenere il suo tipo di sguardo. Posso soltanto dire che sono stato forse uno dei primi “senza Brera”».

Negli anni 90 hai condotto con Gigi Garanzini una particolarissima edizione de Il processo del lunedì su Rai3.
«Sono andato molto poco in televisione, ma quella volta Gigi, amico di sempre, mi aveva assicurato che saremmo andati in onda a tarda sera, seduti a un tavolo assaggiando salumi e del buon vino rosso, come a casa. Avremmo invitato pochi amici ma buoni, parlando di pallone in modo pacato. Allora accettai, e nonostante l’orario e la “diversità” del programma, devo riconoscere che ebbe un buon successo sia si critica sia di pubblico».
Hai collaborato con la rivista di Emergency e con il mensile “della strada” Scarp de’ Tenis, ma sono in pochi a saperlo.
«Sono cose che si fanno magari senza dirlo, trovo giusto che chi ha qualcosa in più lo dia a chi ha di meno, e possa far sentire la sua voce. In fondo noi giornalisti siamo personaggi pubblici, credo che qualcuno ci possa ascoltare. Dare una mano a chi ha bisogno è un modo per tenersi stretti, fa parte dell’essere umani».
Sei stato un assiduo frequentatore del Tour de France. C’è un episodio particolare che ti è rimasto impresso?
«Non posso dimenticare il 18 luglio 1995, quando morì Fabio Casartelli, in seguito a una caduta collettiva durante una ripida e velocissima discesa. Due giorni dopo Lance Armstrong vinse una tappa con il dito puntato verso il cielo per ricordare lo sfortunato compagno di squadra. In questi eventi c’è qualcosa di tragicamente nobile: gli atleti ci mettono il corpo, e in qualche caso ci lasciano la pelle. Le persone come Casartelli sono morti sul lavoro, in modo analogo al muratore che cade dall’impalcatura, o all’operaio asfissiato dai gas mentre pulisce una cisterna».
E un episodio del Giro d’Italia?
«Le lacrime di Eddy Merckx, quando fu scoperto positivo al doping ed escluso dal Giro. Il “Cannibale” era un mostro di forza, non aveva bisogno di quelle cose. Sono tuttora convinto della sua buona fede e che si sia trattato di un incidente. Ricordo bene la conferenza stampa nella sua camera d’albergo. Le sue erano lacrime sincere, lo so: allora l’atleta e il giornalista erano molto vicini, avveniva tutto a caldo, oggi è tutto molto più freddo e distaccato».

Gianni Mura, (Milano 9/10/1945 Senigallia 21 marzo 2020) è stato uno dei più grandi giornalisti italiani e mondiali di sport (e non solo). Nel 1967 inizia a collaborare con la Gazzetta dello Sport. Nel 1976 approda a Repubblica dove tiene per quasi 40 anni la rubrica Sette giorni di cattivi pensieri.
Come hai coniato il soprannome di «Pantadattilo» per Marco Pantani?
«Pantani pareva provenire da altre ere geologiche, altri mondi, mi ricordava un dinosauro volante, simile a uno pterodattilo. Il soprannome, se è spontaneo e non forzato, aggiunge un che di romanzesco, può diventare un nome d’arte. È stato uno degli eroi tragici che mi è capitato di raccontare, sono stato affascinato dalla sua vita e dalla sua solitudine».
Sei ancora fedele alla tua macchina per scrivere Olivetti?
«Sì, e ci tengo a dire che non è mai stato un vezzo, ma un modo per tenermi attaccato, quasi abbracciato, a gran parte della mia carriera, trascorsa picchiando con le dita sui tasti. In un certo senso è un omaggio al mio passato, alla mia vita».
Cosa suggerisci ai giovani che vogliono intraprendere il tuo lavoro?
«Seguite sempre la vostra passione, la vostra indole: non fatevi spaventare da chi manda messaggi e segnali di scoraggiamento. In un’epoca in cui i giornali sono in crisi e i soldi sono pochi, è oggettivamente difficile riuscire a fare per bene questo mestiere, ma voi provateci. Non arrendetevi».
Cosa ne è stato della convivialità in questo periodo?
«Mi è mancata molto. Questo è un mestiere fatto di contatti, viaggi, incontri, abbracci, corpi, non solo quelli degli atleti ma anche i nostri, di noi che li raccontiamo, persino il mio che è un po’ vecchiotto ma ha ancora voglia di muoversi, di consumare le suole delle scarpe. Penso ai momenti dopo le partite o le corse, a tavola, mi piace la carovana del ciclismo, una sorta di grande tendone circense dove si esibiscono le attrazioni, ma di cui anche noi facciamo parte. È il privilegio di questo bellissimo mestiere che ci permette di guardare un mondo che altrimenti non vedremmo».
Cosa hai fatto appena si è concluso l’isolamento forzato?
«Ho affettato un cacciatorino preso al supermercato, per qualche caro amico. Non c’è stato bisogno di chissà quale ricercata prelibatezza. È stata forse la fetta di salame più buona della mia vita, perché finalmente ero di nuovo in compagnia».