Intervista a Kerry Kennedy «Cambiare l’America in nome della fratellanza e dei diritti civili»

Kerry Kennedy interpretata da Chiara Bosna
Kerry Kennedy interpretata da Chiara Bosna

Secondo Kerry Kennedy c’è un’America da curare,bisogna affrontare la parte malata di una grande democrazia, oggi in bilico sulla frontiera del dolore e della paura. Non solo razzismoma anche disoccupazione e povertà. Più giustizia e più libertà

Cornice di Alberto Ruggieri

Di Roberto Pesenti

Curare l’America razzista, con la fratellanza e il coraggio. Affrontare la parte malata del Grande Paese oggi in bilico sulla frontiera del dolore e della paura: 40 milioni di disoccupati, 100mila morti per il virus che ha falciato le comunità nere, 300 città in coprifuoco, 10mila arresti, 17mila soldati della Guardia Nazionale nelle strade, un Presidente, Donald Trump, che aizza gli odi e genera instabilità interna e internazionale. È la missione, allargata a tutto il mondo, di Kerry Kennedy, 60 anni, presidente della Fondazione Robert F. Kennedy Human Rights di Washington (ha una sede anche in Italia, a Firenze). Kerry è madre di tre figli avuti con Andrew Cuomo, Governatore dello Stato di New York e figlia di Bob, ministro della giustizia assassinato a Los Angeles il 5 giugno 1968, durante la campagna per la Presidenza degli Stati Uniti, poi vinta da Richard Nixon, fratello di John Fitzgerald Kennedy, 35esimo presidente degli Stati Uniti, ucciso a Dallas il 22 novembre 1963.

Ciò che è rimasto del passaggio della «meteora Kennedy» è un senso di aspettativa per cose grandi, nuove, intelligenti e davvero fortemente innovative per la storia del mondo. Infatti, non appena si è allontanata la memoria di John e Robert Kennedy, il suprematismo bianco ha alzato la testa, marcato ancora di più il suo imprinting razzista, fronteggiato dal movimento «Black Lives Matter» (le vite dei neri contano).

Ecco perché il messaggio di Kerry Kennedy si rivolge a un mondo politico e a una società polarizzati, confusi da cicatrici vecchie e nuove ferite.

Signora Kennedy perchè, 54 anni dopo l’assassinio di suo padre, Bob Kennedy – un testimone della battaglia dei diritti civili come suo fratello John -, il razzismo ha riguadagnato terreno negli Stati Uniti ed è riemerso il suprematismo bianco?

«Perché questa situazione ha profonde radici storiche spesso dimenticate. Più di 400 anni fa gruppi di bianchi di origine europea navigarono fino in Africa e rapirono uomini, donne e bambini. Misero tutti i rapiti in catene sulle navi, tenendoli affamati durante il viaggio attraverso gli oceani. Quando raggiunsero le coste dell’America, cioè le colonie create nel nuovo mondo, questi africani furono ridotti in schiavitù. Fu così che la disponibilità di mano d’opera gratuita creò la ricchezza delle colonie. L’indipendenza dalla Gran Bretagna fu quindi ottenuta grazie alla ricchezza creata dalla schiavitù. È cominciata allora la lunga lotta degli afro-americani e dei neri d’America per essere trattati con dignità e per cambiare le strutture del razzismo, che erano state create per il mantenimento del potere dei bianchi sulle spalle dei neri».

In questi anni, da quando è presidente Donald Trump, la violenza razzista si è estesa. E il fenomeno si è riacceso anche in Europa.

«Oggi, sebbene le proteste di questi giorni siano mirate soprattutto al modo brutale con cui la polizia mantiene l’ordine pubblico, la sfida più grande è quella di smantellare il razzismo sistematico che è il nodo centrale da cui nasce l’ingiustizia razziale di tipo sociale ed economico negli Stati Uniti. Secondo uno studio della Brookings Institution il patrimonio netto, medio, di una famiglia nera è di soli 17.150 dollari contro i 171.000 di una famiglia bianca. Questo schema di disuguaglianza che riguarda la popolazione di colore è facilmente riscontrabile, diffuso e ripetuto nei settori della casa, della salute, dell’educazione, del reddito e della retribuzione dei soldati che combattono in prima linea nelle nostre guerre. La lunga storia della schiavitù basata sulla razza e il nostro fallimento nell’affrontarla, hanno quindi lasciato una ferita profonda e ancora aperta negli Stati Uniti. Ma ciò non riguarda solo noi. È vero che la struttura del razzismo è evidente e grave in ogni nazione del mondo».

Kerry Kennedy interpretata da Chiara Bosna
Kerry Kennedy (interpretata da Chiara Bosna)

Come giudica le proteste popolari di massa per i diritti civili, svolte all’insegna della fratellanza tra bianchi e neri, cominciate dopo l’omicidio di George Floyd?

«Nel corso di tutta la storia degli Stati Uniti sono nati numerosi movimenti sociali di ribellione, inclusi quelli degli anni Sessanta, quando mio padre era candidato alla Presidenza degli Stati Uniti, in cui la gente si è riversata per le strade protestando contro la violenza esercitata nei confronti della popolazione di colore. Tuttavia le proteste del 2020 sono state di gran lunga le più diversificate per quanto riguarda le etnie dei partecipanti. Non avevamo mai assistito a cortei così imponenti e questo è senz’altro positivo. Ma protestare non basta. Tutti i bianchi del mio Paese devono assumersi il duro compito di riflettere sul nostro privilegio e su come le strutture del razzismo continuino a migliorare la qualità della vita dei bianchi, mentre penalizzano sempre di più la condizione della minoranza di colore. Gran parte della popolazione bianca nel Paese sta iniziando ora a rendersi conto dei propri pregiudizi, anche quelli inconsci e più profondi. Propongo a tutti di guardare un video su  Tik Tok, (the difference in perspectives) che spiega come una persona di colore, negli Stati Uniti, sia esposta più facilmente e più spesso a ingiustizie, false accuse e  violenze, rispetto a un bianco».

Che cosa dobbiamo cambiare nel nostro modo di pensare per lottare contro le ingiustizie razziali, sociali, ambientali?

«Dobbiamo chiarire dentro di noi il significato delle parole vittima ed eroe. La differenza tra una vittima e un eroe è un “loving heart”, un cuore capace di amore, fratellanza, pace. Una vittima resta immobile a subire quello che le succede, mentre un eroe agisce seguendo l’impulso del suo cuore. Se pensiamo a Malala Yousafzai a cui i talebani, nel 2012, in Pakistan, hanno sparato in faccia solo perché colpevole di aver gridato al mondo sin da piccola il suo desiderio di leggere e studiare, non la definiamo una vittima, ma una persona eroica. Martin Luther King Jr., che nel 1963 scrive il celebre manifesto per i diritti civili nella prigione di Birmingham, dove si trovava per aver partecipato alla manifestazione contro la segregazione, non fa pensare a una vittima, ma ad un eroe. Se pensiamo a Nelson Mandela che ha passato 19 anni in prigione sull’isola Robben in Sud Africa, perché guida del movimento di resistenza anti-apartheid, non vediamo una vittima, ma un eroe. Questo perché ognuna di queste persone ha affrontato la vita con un grande cuore, e non si è lasciata calpestare come se fosse uno zerbino. Hanno agito con decisione, battendosi per i propri principi, e con il loro attivismo hanno reso migliore il mondo. C’è una formula precisa per ottenere il cambiamento: organizzare, protestare, votare, e poi di nuovo lo stesso ciclo, ed ogni volta occorre ricominciare».

Quali programmi politici e sociali dovremmo cercare di ideare e di attuare nel 21mo secolo, per tenere vivi e attivi nel mondo i valori di libertà e tutela dei diritti umani di Robert F. Kennedy?

«Dobbiamo cercare di ottenere l’uguaglianza nei settori delle abitazioni, dell’educazione, dell’immigrazione; dobbiamo proteggere le organizzazioni non governative che si battono per il progresso, la giustizia e la libertà, e dare più spazio ai gruppi marginalizzati. Ci sono strumenti per realizzare questi obiettivi, molte strade per intervenire in queste aree. In fondo basta guardarsi attorno. Ciascuno di noi può, anzi deve, controllare le aziende da cui compriamo i prodotti che ci servono, per capire come trattano i lavoratori di diverse etnie; come operano le banche dove abbiamo depositato i nostri soldi; come si comportano le nostre scuole nel rispetto delle diversità, chi le governa, quante persone di colore e quante donne fanno parte della direzione e dell’amministrazione. È importante verificare che attorno a noi non ci siano pregiudizi e persone trattate in modo scorretto. Sono tutti segnali delle disuguaglianze che dobbiamo riconoscere per poterle cambiare».

Quali iniziative sono state prese dall’organizzazione Diritti Umani Robert F. Kennedy in questi giorni di mobilitazioni straordinarie?

«Negli Stati Uniti, nelle ultime settimane, ci siamo concentrati sul supporto e sulla diffusione delle voci delle organizzazioni guidate dai neri che lottano per cambiamenti di sistema, sull’appoggio alle proteste e ai manifestanti locali, e abbiamo fatto campagna per spingere tutti a votare. In termini più ampi, cioè globalmente, la nostra organizzazione ha lavorato intensamente per preparare la prossima generazione di difensori dei diritti civili. In Italia abbiamo un programma che si chiama Speak Truth to Power (di’ la verità al potere) che insegna agli studenti delle scuole a ribellarsi ad ogni forma di ingiustizia e diseguaglianza, e in Spagna abbiamo appena finito il corso che ha dato la “laurea” a 150 nuovi difensori dei diritti umani».

Dopo aver riletto le parole di speranza e determinazione che Kerry Kennedy ha affidato al Bullone ci sono molte domande da farsi: troverà spazio e verrà ascoltato questo appello generoso alla mobilitazione morale, alla trasformazione di un intero Paese, diretto in particolare ai giovani, che ci richiama alle virtù storiche dei «profili del coraggio», uomini e donne capaci di prendere decisioni impopolari ma necessarie, anche a rischio della carriera politica e perfino della vita?

C’è davvero la possibilità di superare l’opposizione di chi, passate le manifestazioni di piazza, in gran parte pacifiche, lavora perché tutto rimanga com’è?

Dai tempi della segregazione razziale molte cose sono cambiate per i neri in America, grazie a proteste, rivolte e campagne come quelle di questo terribile 2020. In questi mesi in tutto il Paese i poliziotti che hanno attaccato violentemente i manifestanti, o che hanno mentito sulle proteste sono stati sospesi, alcuni licenziati e messi sotto processo. Il Congresso sta elaborando una legge per esercitare maggior controllo sulle forze di polizia.

Quello che chiede la parte migliore degli americani, ma anche di italiani ed europei, è un cambio di prospettiva, di visione, di straordinario significato in un Paese nelle cui vene continua a pulsare la celebrazione continua di se stesso. È in questa vena che si collocano Trump e una gran parte dell’elettorato che non smette di sostenerlo, ad occhi chiusi. I Kennedy hanno sempre rappresentato, invece, una rottura radicale di questa narrazione autocelebrativa, immaginando un futuro aperto a tutti, bianchi e neri. Per l’America, e anche per il mondo che guarda alla sua tradizione democratica, oggi pare arrivato uno dei momenti della verità, la ricerca di vie d’uscita da una narrazione falsa e tossica.   

Molti, sull’onda dei movimenti di massa anti razzisti che hanno riguardato anche Londra, Berlino, città dell’Asia e dell’America Latina, si sono chiesti se questo sia il momento in America, nel mondo, di una nuova leadership che curi il dolore, che sappia guidare le sommosse verso le riforme, oppure se si tratti ancora di un’illusione, di un nuovo miraggio che svanirà.

Tra quattro mesi ci saranno le elezioni presidenziali e forse Joe Biden, il pacificatore, che ha dimestichezza personale con il dolore di una carriera politica segnata da tragedie personali (ha perso moglie, un figlio, numerosi amici) e che sta avanzando nei sondaggi, si presenterà come un’alternativa a Trump e forse saprà lenire le sofferenze dopo anni di dominio di uomini «forti».

Ma il cambio di stagione che ci propongono le dichiarazioni di Kerry Kennedy non sta solo nel volto di un nuovo Presidente che rimetta insieme una repubblica a pezzi. La prospettiva è un lavoro su noi stessi, di lunga lena, che non produce cambiamenti in un giorno, ma che riguarda la consapevolezza, la capacità, per chi ce la fa, di cogliere l’occasione di un rinnovamento interiore che comporta più tempo, più pazienza, fatica talvolta insopportabile. Riguarda l’esame di coscienza profondo per ogni cittadino, la ricerca di empatia, di un tratto umano, di sentimenti e parole per gli altri che sappiano dare senso, speranza, oltre questo continuo contare violenze e morti.