Le riflessioni dei cronisti del Bullone su questi giorni di dolore e sull’incognita del dopo Coronavirus. Che cosa ci lascerà? Cambierà l’economia, come cambierà il lavoro. In questi due mesi in tanti hanno sperimentato l’impegno professionale dalle proprie case.

Di Francesca Bazzoni
Cambiare è un concetto che può assumere molte sfaccettature arrivando ad acquisire, a volte, connotati quasi astratti. Molto spesso il cambiamento viene visto come un’utopia, specialmente quando riguarda una collettività, e, nella maggior parte dei casi, conseguente alla fortuna che può aver l’iniziativa di un singolo.
Oggi viviamo sospesi in quell’istante in cui correndo abbiamo tirato il freno a mano e scivoliamo veloci, aspettando che il moto delle conseguenze delle nostre azioni esaurisca la sua forza; è un momento di stallo, di crisi, e inevitabilmente di grande riflessione.
Perché quando ci fermiamo abbiamo finalmente tempo e modo per pensare alla nostra vita in senso più ampio, a cosa vorremmo di diverso.
Ora che siamo costretti a modificare le nostre abitudini, ci stiamo rendendo conto di quanto poi non sia così difficile e che la società, piano piano, si adatta ai cambiamenti. Grazie a questa infelice esperienza abbiamo una grande opportunità per ripartire in modo differente perché, si sa, è nelle difficoltà che avvengono le grandi evoluzioni.
L’importante è non dimenticare. Temo che ci verrà naturale pensare di poter tornare con un balzo alla vecchia vita, ma questa volta credo che lo scossone sia stato troppo forte per renderlo possibile.
E così anch’io mi trovo a riflettere su quello che vorrei, penso ad esempio al lavoro.
Improvvisamente, anche aziende che non avevano mai considerato questa ipotesi, devono consentire ai dipendenti di lavorare da casa. E se questo avvenisse anche dopo? Se alle persone, nei settori in cui è possibile, fosse concesso di lavorare da casa o agli orari più congeniali al singolo? Quante cose potremmo fare con quel tempo conquistato?
Penso ai pendolari e a tutti gli spostamenti quotidiani che si potrebbero evitare. Migliorare la viabilità, l’aria, la qualità della vita; dedicarsi maggiormente a se stessi. Trovare il modo di garantire a tutti le condizioni per poter lavorare anche in momenti di difficoltà.
Se guardiamo al passato non è difficile da immaginare.
Pensiamo che l’orario lavorativo di otto ore, considerato oggi standard, è tale perché qualcuno l’ha conquistato. Non potrebbe quindi cambiare ancora?

Ma questo dovrebbe avvenire attraverso un patto, una scelta consapevole e volontaria. Bisogna avere più fiducia nelle responsabilità del singolo, tornare a una dimensione più umana. Le persone, dal canto loro, dovrebbero dedicarsi con maggiore impegno e passione al proprio lavoro, affidandosi alla propria capacità di gestione del tempo.
È inutile fingere che la mentalità «furbetta» all’italiana non esista, ma intanto si potrebbe lavorare per obiettivi e non per orari, favorire la meritocrazia attraverso la verifica del lavoro fatto.
E quindi cosa possiamo fare noi nel nostro piccolo?
Prima di tutto comunicare; maturare dei desideri e trasmetterli agli altri.
Immaginiamoci un padre che, sentendo la figlia felice di poter lavorare da casa ed entusiasta dei benefici acquisiti, decida di dare questa concessione anche ai suoi dipendenti.
I giovani possono trasmettere nuovi messaggi alle generazioni precedenti la loro.
Tutti in questo momento stiamo ritrovando un senso di comunità che ci fa sentire più vicini, empatizziamo di più e siamo più in grado di ascoltare. Grazie a questo possiamo avviare un confronto tra le generazioni e tra le classi sociali e cambiare così la mentalità collettiva.
Quindi smettiamola di pensare al cambiamento come indipendente dal nostro potere, lo dico anche a me stessa, e scopriamo che la contagiosità della parola è più forte di quella di un virus.
