La storia di Alessia Franceschini

Di Alessia Franceschini

Ciao, sono Alessia, ho 19 anni, questo è l’ennesimo tentativo che faccio di raccontare la mia storia. Mi è già capitato in altri momenti, e ogni volta le do una sfumatura diversa, perché rispetto a questo argomento mi sento ancora insicura: a volte vorrei tenermela stretta e ripercorrerla con nostalgia, perché sento che mi manca la «me» di un tempo, fragile e chiusa nella sua bolla; altre volte vorrei poterla dimenticare, magari metterci un punto, tenerla lontana per non farla tornare più. Ora che però si tratta di scrivere per molte più persone, non voglio che dalle mie parole emergano solo sofferenza, dati clinici e angoscia. Certo, anche queste cose sono state una parte importante di quello che ho vissuto, però voglio far conoscere anche ciò che di nuovo e positivo mi sto creando, soprattutto la speranza e la forza che ci metto ogni giorno, e che le persone più vicine mi infondono. Ecco, spero di donarne un po’ a chi leggerà questo articolo.

È difficile pensare a un inizio, non ho ancora ben chiaro che cosa mi abbia portato fino alla malattia. Racconto sempre questo come inizio, perché a posteriori riesco a pensarci e a farci una risata sopra. Premessa: non ho mai avuto approcci prima della malattia con gli ospedali, li ho sempre percepiti come una realtà lontana e distante. Eppure un giorno mi trovai costretta dai miei genitori a un day-hospital per fare alcuni esami in merito a delle allergie. Non sospettavo nulla, credetemi, nonostante mi avessero fatto tutto, tranne test allergici, non mi sfiorò il minimo dubbio. Peso, pressione troppo bassa, battiti lenti: subito ricoverata. Immaginate la mia faccia quando mi dissero che non potevo tornare a casa. Sono tutti pazzi, ho pensato. Ma perché mi ricoverano? Dov’è il problema? Cosa mi avranno trovato? Inconsciamente filtrai le informazioni ricevute, e per le prime settimane credetti di avere problemi di cuore, semplicemente i battiti un po’ lenti.

Nella foto Alessia Franceschini

Era una situazione surreale, giravo per il reparto e tutti mi guardavano come se fossi io la pazza, continuavano a dirmi che non capivo. Mi assegnarono una psicologa, e all’inizio la cosa mi fece quasi ridere: fino a quel momento avevo sempre avuto la certezza che mai sarei andata a parlare dei fatti miei con uno strizzacervelli. Servirà agli altri, ma per me, anche no… Intanto bisognava avvisare la scuola, e mi portarono il certificato che i miei genitori avrebbero dovuto consegnare. Apro la busta, e trovo la diagnosi: anoressia nervosa restrittiva. Fissai un po’ il foglio, poi iniziai ad agitarmi: io? Anoressia? Ma dai, mi avete visto bene? Assurdo. Cercai su internet: trovai una semplice descrizione di sintomi, che «stranamente» (pensai), erano proprio uguali a certe cose che facevo anch’io. Per un po’ continuai a negare, ma presto o tardi dovetti rendermi conto che qualcosa non andava: fisse, ossessioni, calcoli, numeri, cibo, attacchi di panico, il bagno chiuso a chiave dopo i pasti, gli integratori, la sorveglianza ad ogni pasto, lo sguardo spaventato delle persone attorno a me. Iniziavo ad ammettere di avere qualcosa, ma non mi sentivo mai abbastanza grave per stare lì, per dover seguire tutte quelle cure, dicevo a tutti che bastava darmi una dieta e mandarmi a casa: un po’ di etti in più e sarei tornata normale. Andò così per mesi: la parte peggiore di questa malattia è proprio quella che non ti fa vedere la realtà, ti fa sentire e vedere sempre troppo, provoca una dispercezione così radicata, da non farti rendere conto di essere un corpo in fin di vita, spinto allo stremo delle sue forze, che grida aiuto. Se ne accorgono tutti, ma tu no, ti guardi in uno specchio deforme e vedi tutto quello che il mostro dentro di te vuole farti vedere. La situazione non migliorava, così mi trasferirono in un altro ospedale: un carcere, a detta dei medici, un posto di cui aver paura, tanta era la severità dei loro metodi. Fortunatamente per me, invece, lì trovai davvero la strada da seguire, il percorso che con alti e bassi mi fece aprire gli occhi e capire che cosa mi stavo facendo. Dopo le prime settimane, in cui ancora non volevo cedere, anzi, continuavo a perseguire i miei obiettivi distruttivi, iniziai a mollare la presa. Cominciai a sentirmi soffocata da tutto, ero stanca, ma non sapevo come fare. Chiesi aiuto. Volevo capire perché non riuscivo più a smettere di fermarmi, non sapevo che cosa stesse succedendo, perché provassi quel dolore così forte, perché avessi quelle voci che urlavano di continuo nella mia testa. Volevo una vita normale, ma non sapevo più come fare, non mi sembrava di meritarlo, io dovevo stare così e basta, non potevo essere come gli altri. Uscire da una malattia è un percorso lento e difficile, non solo nel caso dei disturbi alimentari. Il modo per cominciare è avere fiducia e speranza, fiducia nei medici che non sono dei nemici, come continuavo a pensare. Ho dovuto lavorare tanto sulla fiducia, ho sempre fatto affidamento solo su me stessa, fatico ancora ora ad appoggiarmi agli altri e a chiedere aiuto, ma quello che ho imparato è che ci sono situazioni in cui va fatto, ci sono cose più grandi di noi che non possiamo sconfiggere da soli. 

Un cartellone che è stato regalato ad Alessia per il suo compleanno

Dopo un lunghissimo percorso sulle montagne russe, ho lentamente ricominciato una vita normale. Col tempo ho imparato (e sto imparando) a lasciarmi andare, ad aprirmi, ad abbandonare paure e ossessioni malate, a provare a prendere spunto dagli altri, e a cercare un equilibrio che mi permettesse di vivere serenamente. Non sono mai stata sola: ho sempre potuto contare sull’appoggio di alcuni amici e della famiglia (oltre che dei medici), che magari all’inizio non capivano, ma col tempo si sono affidati anche loro e hanno fatto ogni sforzo per cercare di capirmi e starmi vicino. E anche quando non mi capivano, come è normale per chi non soffre di disturbi di questo tipo, facevano il possibile per starmi semplicemente accanto, e cercare di difendermi da quel mostro orribile contro cui stavo lottando. E poi viaggiare: ogni città, ogni esperienza vissuta non appena ho avuto il permesso di muovermi, è stata la chiave che ha aperto la gabbia da cui non riuscivo ad uscire. 

Ora la gabbia è lì, sempre aperta: ogni tanto ci rientro, ma ormai ho la chiave. Ora so che posso aprirla, e che fuori si sta decisamente meglio. Il mostro… beh, ogni tanto si fa vivo. Non so se riuscirò mai a cacciarlo definitivamente. Io intanto, cerco di non ascoltarlo.

Sostieni la Fondazione, il tuo contributo ci permette di andare lontano sviluppando la ricostruzione, l’aggregazione e l’orgoglio comune insieme a un gruppo di ragazzi che hanno affrontato o stanno affrontando il percorso della malattia.