Le testimonianze – La mascherina ci fa sentire vulnerabili

Di Gloria Mantegazza

Vulnerabilità non nel senso che il vulnus è un difetto della bellezza. Ma in quanto ne è la condizione costitutiva (cit). 25 marzo 2019. Il giorno della mia diagnosi: rara malattia polmonare. I raggi mostravano la parte superiore del polmone destro ridotta male. “Situazione seria, ma recuperabile” disse il dottore. Nella mia testa il blackout. Da quel giorno la mia vita è cambiata. Due mesi di isolamento ospedaliero e una prospettiva di almeno due anni di cure hanno scardinato la mia routine. Quel giorno ho indossato per la prima volta una mascherina di protezione e mi sono sentita vulnerabile.

25 marzo 2020. Ventesimo giorno di isolamento. Emergenza sanitaria nazionale. E’ arrivato il coronavirus, colpisce i polmoni. Articoli, video, post, ognuno dice la sua con una frenesia mai vista. Il governo ci chiede di rimanere a casa, isolati e di fermarci. “Ancora?” Dopo un anno di terapie con effetti collaterali psichedelici e una fatica immane a riprendere una vita tranquilla, ci mancava pure questa. Alta incidenza di mortalità dei soggetti a rischio. Una fetta della popolazione tira un sospiro di sollievo. Sorrido amaramente, a metà febbraio ero già chiusa in casa. Il mio isolamento ricomincia, di nuovo con quella mascherina che per me è stata il punto di inizio di un cammino faticoso. Mi sento stranamente tranquilla, so cosa devo fare. “Ho vissuto due mesi in una stanza. Ora, in una casa, dovrebbe essere una passeggiata no?”.L’anno scorso però, all’inizio della mia degenza, il massimo del movimento era quello di mettermi comoda, prima che arrivasse l’infermiera con la flebo, altrimenti mi sarei condannata a dolori e crampi. Avevo una data di ingresso, la data di uscita era “quando le cose si metteranno meglio”. Questa incertezza annebbia il cervello e spaventa l’anima ed è la stessa che ho percepito all’arrivo del covid-19. Questa volta però il senso di vulnerabilità è nell’aria e negli occhi di molti. In ospedale le mie strategie sono state la lettura, internet e godere dell’affetto di chi si è ritagliato del tempo per dedicarlo a me. Impossibilitata nei movimenti, mi sono addentrata in me stessa con una profondità e voglia nuove. Quando il corpo ha iniziato a rispondere positivamente alla cura, non bastavano più le “camminate” intorno a quella superficie di 3×3. Mi sentivo di nuovo viva, anche se più fragile e ammaccata. Consapevole che una volta uscita non sarebbe finita, volevo vivere un altro capitolo. Oggi mi chiedo quanto riusciremo a durare in questa situazione di isolamento collettivo. Penso a chi sta chiuso in casa e percepisce il dolore fuori, nelle continue sirene dell’ambulanza, e a chi lo sta vivendo più da vicino. Sentirsi bloccati non è facile da accettare, neanche quando è il tuo corpo a chiedere uno stop, figuriamoci se l’imposizione arriva dall’esterno. Le prime settimane credo siano le più semplici da gestire, a livello pratico, economico e psicologico. Il problema è il tempo, non é facile stare in una situazione di incertezza e mantenere la tranquillità mentale. Ricordo che in ospedale cercavo dei colpevoli: i dottori, chi avevo intorno, il sistema e poi, quando non riuscivo a trovare il capro espiatorio dei miei mali, finivo per colpevolizzare me stessa.

Ma poi ho compreso che testa e cuore sono necessari in questo percorso. Le emozioni sono ciò che ci rendono vivi, ma la razionalità crea spazio alla riflessione e al pensiero critico e quando la si abbandona totalmente ci si può perdere. In questi giorni di emergenza mi sembra di percepire quel bisogno di trovare un colpevole del senso di rabbia e afflizione comune. La situazione però è complessa e continuare a semplificarla alimenterà solo malessere, personale e sociale. Dopo tanti mesi di stallo non è stato facile ricominciare. Pensavo alle mie relazioni, alla mia salute e alla mia precarietà economica. Le mie energie non sono più le stesse, anche se forse ho guadagnato in consapevolezza. Oggi mi ringrazio per aver viaggiato tanto. Ho conosciuto persone in grado di rendere le loro cicatrici invisibili qualcosa di vivo, e non distruttivo. Forse chi impara che la vita è “pericolosa”, prova a Vivere, prima di morire. Ora è arrivato questo virus, che ha messo in dubbio la nostra percezione di sicurezza collettiva, ma non è l’unica malattia infettiva. Finora il nostro paese è stato fortunato. Dengue, ebola, malaria, tifo, tubercolosi, HIV ogni anno causano milioni di morti. Di certo non andrà tutto bene. C’è chi perderà e chi guadagnerà qualcosa, o qualcuno. Io, con la mia malattia, ho scoperto che la prevenzione individuale e la responsabilità collettiva sono due aspetti fondamentali del benessere. Che stare in salute non è solo un diritto ma anche un dovere. Che momenti di blocco nella vita non sono solo una disgrazia. Forse torneremo alla normalità. Ma cosa vuol dire essere normali? Mi auguro che questo sia invece un momento per riflettere, riuscire a cogliere le sfumature di questo dolore collettivo e trarne insegnamento. Perché il dolore atterrisce, oppure rivoluziona.