Intervista a Rancore – Il palco mi aiuta ad avere meno paura dei miei «mostri»

Di Oriana Gullone

Dove sarà Rancore fra 3 anni e come lo influenzerà questo Sanremo?

«Ho sempre scritto dischi pensando al me del futuro. A Sanremo sono felice di esserci con il mio nome, la complessità del mio lavoro, la voglia di scombussolare, anche con una cosa piccola, una così grande, quello che cerco di fare sempre. Fra tre anni vorrei voltarmi indietro e sorridere. Sembra che io non lo faccia mai, ma non è vero».

È iniziata così la conferenza stampa. Prima della domanda, delle urla dalle ultime file fanno fretta, troncando l’introduzione su Il Bullone. Dopo la domanda, un lungo applauso rimargina lo schiaffo delle urla. Le seppellisce, come un abbraccio. Nella notte arriva un messaggio. Rancore sta ancora pensando a quelle urla e vuole un’intervista telefonica senza che ci disturbino. Leggo il messaggio anche ai colleghi in sala stampa, quell’applauso ha dimostrato che sulle urla vince la squadra. Il 14 febbraio squilla il telefono: «Ciao Oriana, sono Tarek».

In Depressissimo scrivi: «Di farti le domande vere non hai mai il coraggio», quali sono?

«Qual è il motivo per cui stai facendo qualcosa? A volte si perde, rendersene conto è complesso, ma rende più chiara la direzione».

Qual è stato il processo di creazione di Depressissimo?

«L’idea del ritornello con il climax dei superlativi è fanciullesco, ironico. Il mondo è “superlativo” quando sei depresso. E l’ironia credo sia l’unico modo, complesso, di raccontare certi temi. È un pezzo da riascoltare più volte. Rap ermetico per questo, perché ad ogni ascolto trovi qualcosa che ti era sfuggito».

Da cosa trai ispirazione per i testi?

«Le mie riflessioni interiori esplorano, cercano il mistero nella realtà che mi circonda. Cerco di non parlare di me, ma di osservare e ascoltare le cose del mondo, scoprirle con le parole e raccontarle come si raccontano a me».

Italian singer Rancore arrives on the red carpet for the 70th Sanremo Italian Song Festival outside the Ariston theatre in Sanremo, Italy, 03 February 2020. The festival runs from 04 to 08 February. ANSA/ETTORE FERRARI

Perché hai cominciato a scrivere?

«Ero uno skater, uno sforzo fisico e di costanza, dove per imparare i trick devi cadere e rialzarti mille volte. I primi free style li vivevo così. Continuo perché mi insegna tanto e mi porta dove non sarei andato. Da 15 anni».

Come sei arrivato allo stile personale e preciso di oggi?

«Piano piano. Ascoltando la direzione che prendevo, il motivo per cui continuavo. E studiando. Ogni disco è preceduto da uno studio profondo sul mondo, sullo stile di scrittura. È quello che mi ha permesso di definire il mio stile. Avere chiara la direzione che prendi è importantissimo, anche per cambiarla».

Leggi? I tuoi pezzi hanno un lessico molto ampio.

«Ho poco tempo per leggere. Leggo ciò che ho dentro e che mi circonda, che si può sfogliare come un libro. Le parole sono il mio codice e sono ovunque. Nei libri come nella bocca della gente, in TV. Sono la nostra Matrix. Cerco di romperle, con rime, neologismi, per capire come sono fatte dentro».

Quale canzone ti rappresenta meglio?

«Una mia. Scrivo sempre per ricordare al me del futuro chi ero in quel momento. E Giovani artisti continua a descrivermi».

Come racconteresti il rap ai «piccoli» che adesso ascoltano trap?

«La trap ha riportato tutto nei club, com’era una volta, ma più per ballare che per una vera rivolta. Li porterei su una macchina del tempo a una battle free style di 15 anni fa. Devi vederlo, viverlo, quel rap lì».

Dove hai trovato la calma e la fiducia in te per affrontare da solo l’Ariston?

«Affronto cose da solo da sempre. Anche nei free style. È una sfida con me stesso. Ero molto concentrato. E non è sul palco che sono solo. Quando nasci, quando muori lo sei. Il palco ti permette di affrontare quei mostri e averne meno paura nella vita. Se poi scrivi, solo non lo sei mai».

Tre parole che descrivano il tuo rap?

«Ermetico, dinamico, surrealista».

Sei «ermetico» anche tu?

«Non mi apro facilmente, chi mi conosce deve trovare un codice. Ma tutto ciò che creiamo un po’ ci assomiglia, no?».