Intervista a Giuseppe De Rita, sociologo e intellettuale di fama internazionale
Di Fiamma Colette Invernizzi
«Non saprei cosa dirle», mi apostrofa con la voce roca di chi raschia le più profonde verità, «siamo pieni di cattive notizie, in questo momento, in questo nostro Paese».
Comincia così l’intervista a Giuseppe De Rita, sociologo e intellettuale di fama nazionale: lasciandomi senza parole. Senza molte speranze, anche. Né di commentare, né di trovare delle argomentazioni che mi rassicurino, al pensiero che l’Italia sia ancora in grado di funzionare benissimo. Poi ride. D’improvviso. Una risata calda come per ricordare al mondo che, alla fine, anche tra le cattive notizie si può trovare uno spiraglio di ironia per affrontare la vita – e la storia – con il piede giusto. Parla, lui, di tutto il mondo insieme, come fanno gli anziani che hanno vissuto, come fanno i saggi che hanno speso la vita a pensare, parlare e fare. «Va bene così», prosegue con un suono del tutto nuovo e luminoso, «e l’Italia regge le difficoltà di oggi perché è un Paese continuista». Silenzio. Sfoglio il mio dizionario mentale, alla ricerca della lettera C, seguita dalla O, dalla N, e così via, fino alla fine della parola. Continuista. L’avevo inserito tra i termini ad accezione spiacevole, a dire il vero. Pensavo che diffidare delle innovazioni insistendo su programmi e idee tradizionali fosse, se non proprio sbagliato, un approccio impolverato a un mondo che si muove velocemente verso una meta iridescente nascosta tra il consumismo e la globalizzazione. «C’è una continuità nel tempo», mi apostrofa come se fosse riuscito a percepire attraverso il telefono la mia incertezza, «e in Italia il passato gioca in favore del futuro. Troviamo una solidità all’interno delle strutture esistenti – anche in quelle pubbliche, per certi versi, tra cui il servizio sanitario nazionale, le forze dell’ordine o la stessa magistratura – che deriva interamente dai pregressi su cui sono radicate». Ecco il continuismo, dunque. Per comprendere come leggere l’Italia che funziona non dobbiamo far altro che prendere coscienza del bagaglio culturale su cui poggia i piedi. Su cui poggiamo i piedi tutti noi. A riportare indietro la memoria, infatti, è il 1088 quando a Bologna sorge il primo Studium, come libera e laica organizzazione fra studenti, presto denominata la più antica Università del mondo occidentale. E, non a caso, i primi partecipanti erano dei glossatori – colti autori di annotazioni interpretative di testi di diritto – chiamati a commentare l’antico codice normativo romano – il Corpus Iuris Civilis – che aveva costituito l’ordinamento giuridico della futura capitale italiana per circa tredici secoli, dalla fondazione di Roma alla fine dell’Impero di Giustiniano.

E a pensarci bene è nella stessa università bolognese che, dal XIV secolo si aggiungono ai giuristi anche gli studiosi di logica, astronomia, medicina, filosofia, aritmetica, retorica, grammatica e poi teologia, greco ed ebraico, contribuendo alla nascita di generazioni di studiosi, di biblioteche, di teatri anatomici e di cattedre ancora oggi rinomate in tutto il mondo. Per non parlare del mondo dell’arte che, ben più antico, ci culla in epoche trascorse, decorate di mosaici ed affreschi, bassorilievi e intarsi. «Naturalmente questa continuità», interrompe il mio divagare di pensieri Giuseppe De Rita, «soffre nel momento in cui il Paese si affaccia a una crisi – che sia economica o sanitaria come quella presente – perché non siamo in grado di reggere bene il confronto con le rotture improvvise. Ci affidiamo, quando ciò accade, alla consapevolezza che tutto sommato il Paese funziona, gli ospedali svolgono il loro dovere e i centri di ricerca anche, perché si appoggiano a decenni e decenni di esperienze». E i piccoli borghi, allo stesso modo, con la cura che hanno – e soprattutto avevano – per il territorio circostante, si mostrano come realtà invidiabili, così come le città che, nonostante le mille sfaccettature di luci e ombre, si raccontano con periferie urbane più umane rispetto alle grandi metropoli europee. La distribuzione delle discontinuità sul territorio – e così anche delle difficoltà – rende possibile la distribuzione delle tensioni sociali in modo tale da risolverle con più attenzione, senza avere la necessità di trattarle come strappi sociali epocali. Il continuum tra passato e presente si manifesta come una struttura consolidata nel nostro substrato culturale, che fa funzionare il sistema a svariate scale di lettura. «L’ingrediente giusto per superare le irregolarità non esiste», prosegue De Rita, «ma sono presenti da sempre la forza di volontà, l’organizzazione, la voglia di lavorare e la tecnologia a servizio delle necessità. Dirò forse una cosa controcorrente, ma in questi momenti di estemporaneità è necessaria la presenza di una classe dirigente in grado di riprendere le fila della continuità, mentre troppo spesso ultimamente abbiamo assistito a un quadro dirigenziale che nasce e si pasce di discontinuità, sfruttando a suo favore la drammaticità improvvisa di una situazione o il titolo urlato di un giornale per cavalcare l’evento, senza però portare una vera soluzione». E, anche qui, un ritorno alla storia è necessario. Giuseppe De Rita lo rende manifesto, condannando il panorama contemporaneo che porta a pensare che l’Italia sia «un fuscello senza potere e senza politica», riportando alla mente «che i migliori periodi della nostra esistenza unitaria sono stati quelli in cui scegliemmo (o la classe dirigente scelse) una netta appartenenza internazionale: prima nel Risorgimento, con la scelta di mettersi in asse con la forza culturale e di potere di Francia e Inghilterra, e cento anni dopo, nel grande sviluppo della seconda metà del Novecento, con la scelta di mettersi in asse con gli Stati Uniti e con tutto il mondo occidentale». Non che vivere nel presente sia un errore, questo no, anzi, ma viene alla luce la spudorata necessità di mantenere un confronto attivo con il passato che ci scalda le spalle. Se Cicerone definiva la storia come testimonianza dell’antico, luce di verità, vita della memoria, maestra dell’esistenza e annunciatrice di tempi, allora vi ci dobbiamo affidare, consapevoli del fatto che «una società prigioniera del quotidiano non progetta futuro», come scrive De Rita nel libro Prigionieri del Presente, «perché cova rancori e paure, riuscendo solo ad adattarsi: al desiderio sostituisce le pulsioni, al progetto l’annuncio, alle passioni le emozioni». Un mondo volatile che muta al variare delle stagioni, erigendo costruzioni di paglia tristemente soggette alla distruzione da parte di incendi mediatici o inondazioni di fake news, in opposizione al credo di Camus, che trovava il senso della vita nella resistenza all’aria del tempo. «La schiavitù del presente», continua l’intellettuale e sociologo romano, «ha portato perfino a un mutamento antropologico dell’uomo occidentale: nella vita privata, nella sfera dei sentimenti, delle relazioni, dei rapporti umani e della dimensione pubblica, dalla politica all’economia, dalle istituzioni alle imprese. Il presentismoratifica il primato della tecnologia che domina e ci domina, della finanza senza redistribuzione della ricchezza». Un mondo solo-presente è un mondo che considera le bacheche dei social una veritiera finestra sul mondo, che istiga a parlare per titoli e non per concetti, ad accorciare i tempi, a limare le relazioni, a divorare false informazioni, a muoversi senza sosta per timore di non avere una meta da mettere in mostra, a non avere il tempo per pensare prima di agire, a seguire senza pensare, a commentare senza costruire. Un’esistenza solo-presente è un’esistenza di plastica usa e getta, di poesie dimenticate, di relazioni non coltivate, di deterioramento della bellezza, di vecchiaia senza saggezza e di storie senza importanza. Che cosa vorrebbe vedere nella prossima generazione?, gli chiedo. «Vorrei una classe dirigente più radicata nella storia di questo Paese, anche se il pensiero sembra essere contro-tendenza, ormai», mi risponde Giuseppe De Rita con impeto, «perché sono stufo di vedere chi si innamora troppo dell’innovazione, delle novità, delle sfide del futuro, perdendo la solidità di rapporto con l’esistente, che poi è quella che permette di governare davvero. Alla fine si governa su quello che c’è e non su ideali fantasiosi praticamente inapplicabili. Non si possono pensare grandi progetti – anche architettonici se vogliamo – se poi non abbiamo chi si prende cura del quotidiano. Dobbiamo anzitutto diventare forti dentro di noi, avere una precisa idea di Italia, operare una scelta di appartenenza a una storia e a una cultura e starci dentro con coerenza. Questo è l’arduo compito – inderogabile! – per chi governa il sistema». Un ritorno al passato per guardare il futuro. O meglio, uno sguardo al tempo ormai trascorso, perché il futuro sia frutto di scelte consapevoli, di conoscenze acquisite e di attenzioni per una realtà che porta con sé le esperienze di un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori e di trasmigratori.