«Salve magister!» Vi presento il professore che ci parla latino in classe
Di Alessia Franceschini
Rosa, rosae, rosae… No, non è stato così. Il professore Ignazio Roi, prima lezione e… un quotidiano scritto in latino. Il libro di grammatica? No, un testo intitolato Primus Annus (come dimenticarlo!): capitoletti in latino sulle giornate di un certo «puer», con domande di comprensione (sempre in latino!) A fine pagina.
E un professore di lettere classiche, che non soddisfatto dai risultati che otteneva con la grammatica tradizionale, ha deciso di sperimentare con i suoi alunni un sistema nuovo molto diffuso all’estero, il metodo natura. È una via di apprendimento induttiva, per imparare le strutture della lingua traendole da testi, non d’autore, scritti e adatti allo scopo.
È stata questa la prima cosa a cui ho pensato, parlando di «piccole eccellenze in un’Italia che funziona», perché per me, come per tutti i suoi alunni credo, questo professore è stato un’eccellenza oltre che un’eccezione, nel piccolo ambito del liceo che frequento. Un’eccellenza perché ci ha avvicinati a una lingua apparentemente così distante (o morta, come si suol dire), rendendoci in grado di usarla, non solo di tradurla. Un’eccezione, o come si è definito, una mosca bianca, intorno a tanti che guardandolo con perplessità, hanno continuato e continuano a insegnare come si è sempre fatto; un carattere e un carisma che non poteva che distinguersi tra gli altri (ma questo è un altro discorso).
Non c’è nessuna presunzione né voglia di distinguersi però in lui; non si stanca mai di citare Marziale: «Semper tiro sum» (sono sempre un principiante).

Una piccola mosca bianca che ha fatto la differenza, che nell’ottica di una speranza che ci deve essere sempre, dopo anni di insegnamento tradizionale ha voluto rischiare senza pensare che ormai fosse tardi.
Io credo che il nostro Paese sia ricco di queste piccole eccellenze, di tante piccole mosche bianche che non cercano fama o riconoscimenti, ma che sperano e lavorano ogni giorno per far funzionare ogni ambito, a partire dalle piccole realtà.
Anzi, ora ricordo, è iniziata proprio così: «Da oggi quando entro in classe direte “salve magister”». Ancora oggi, quando lo incontriamo, lo salutiamo proprio così.
Da 40 anni la sveglia suona alle 4.30 del mattino
Di Francesca Filardi
Quando ero più piccola ho sempre rimproverato a mio padre di essere poco presente, perché sempre troppo impegnato nella sua attività lavorativa. Esattamente 40 anni fa emigrava, insieme a sua sorella e a sua madre, da un piccolo paesino agricolo del Sud Italia in una grande città industriale, per aprire un bar tabacchi, che nel tempo ha cambiato ben poco il suo aspetto, ma che anche in quello rispecchia i suoi valori tradizionali: l’autenticità e semplicità originarie che gli hanno permesso di subire fasi economiche diverse, senza mai cedere completamente ad esse.
Situato all’angolo di una via molto trafficata di Milano, è sempre stato un punto di riferimento per giovani e anziani sia della zona, sia di passaggio. Un posto capace di accogliere in qualsiasi periodo dell’anno singoli, che spesso non sanno dove andare, o gruppi di persone, che vogliono ritrovarsi. Da 40 anni la sveglia suona alle 4.30 del mattino, la saracinesca si alza un’ora dopo, per riabbassarsi soltanto alle 20.30 la sera. Questo accade tutti i giorni dell’anno, ad esclusione del giorno di Natale, di Pasqua e del mese di agosto, in cui mio padre si concede una vacanza nel suo paese di origine. 7 giorni su 7, a parte la domenica pomeriggio, in cui mio padre si concede una mezza giornata per riposarsi.
Relazioni che durano da anni, persone che si affidano a lui come a un figlio, ad esempio il signor Antonio, che tutti i giorni aspetta puntuale l’apertura del bar, come un bimbo aspetta l’arrivo di Babbo Natale. Sa che mio padre cuocerà per prima la sua brioche preferita e gli servirà la colazione al «suo» tavolo. Appena arriva mia zia, sorella di mio padre, il signor Antonio potrà anche ricevere le sue medicine che mio padre andrà a comprare. Poi è la volta di Abib, il venditore ambulante di origini marocchine, che purtroppo, non avendo una residenza fissa in cui vivere, la sera lascia la sua merce che ritirerà l’indomani. Se la giornata è stata scarsa di golosi, Abib porterà con sé tutte le brioches invendute. A volte passa anche Franco, anzi siamo contenti quando lo vediamo, perché così sappiamo che sta bene. Purtroppo la dipendenza non gli impedisce di rinunciare alla sua birra, che sa di poter consumare nonostante spesso non ne abbia i soldi. Verso ora di pranzo, arriva Martina, una ragazza molto problematica, ma così di cuore… Sa di trovare orecchie che la ascoltano, nonostante siano prese da tanto altro da fare.
Relazioni passeggere di mamme che assecondano le pretese dei figli, all’uscita da scuola; innamorati al loro primo appuntamento, o coppie consolidate in abituali discussioni; e ancora, comitive di adolescenti che evadono dalla frustrazione di non avere spesso un posto in cui stare, o di anziani che combattono insieme la solitudine.

Si potrebbe andare avanti per ore perché in quella città enorme, in quell’angolo di bar, quell’uomo non troppo istruito, e con lui la sua famiglia, sanno anche ascoltare e leggere. Non i libri, quelli li hanno a malapena aperti; sanno leggere la gente. I segni che le persone si portano dietro: la loro provenienza e la loro storia, tutta scritta, addosso. Ogni giorno aggiungono un piccolo pezzo alla storia di quell’angolo di città.
Così, oggi sono fiera di aver rimproverato l’assenza di mio padre perché, come sostiene Fabio Volo, nel suo libro Esco a fare due passi: «I veri eroi sono quelli che ogni giorno si alzano dal letto e affrontano la vita anche se gli hanno rubato i sogni e il futuro. Quelli che alzano la saracinesca di un bar o di un’officina, che vanno in un ufficio, in una fabbrica. Che non lottano per la gloria o per la fama, ma per la sopravvivenza. Sono coraggiosi. Gli eroi veri non stanno a cavallo».