Immagine in evidenza: Renzo Piano (Foto: Francois Mori/AP/REX/Shutterstock)
Di Chiara Malinverno
Filo conduttore di questo numero de Il Bullone è l’Italia che funziona. Secondo lei l’Italia funziona davvero? Con lei sembra aver funzionato. È soddisfatto di ciò che l’Italia le ha dato?
«Non sempre, purtroppo, funziona. Ma dobbiamo sempre ricordiarci che siamo un Paese capace di costruire grandi navi, robot complicatissimi, d’isolare il coronavirus, che è in grado di lavorare sulla sospensione del plasma a 150 milioni di gradi centigradi. L’invenzione è nel nostro DNA. Noi italiani siamo come dei nani sulle spalle di un gigante».
Chi sarebbe il gigante?
«Il gigante è la nostra cultura, una cultura antica che ci ha regalato la capacità di cogliere la complessità delle cose. Articolare i ragionamenti, tessere insieme arte e scienza, e questo è un capitale umanistico straordinario. Per questa italianità c’è sempre posto in tutto il resto del mondo. Però…».
Però?
«Però bisogna avere coraggio e correre dei rischi. Io lo ripeto sempre ai ragazzi: i giovani hanno spesso il timore di sbagliare ed è giusto, ma bisogna superare la paura dell’errore e buttarsi, però per potersi buttare a fare errori è bene lavorare in gruppo, perché quando si lavora in gruppo c’è una rete di salvezza, ci sono gli altri. E poi c’è un’altra cosa».
Quale?
«Che è una fortuna essere nati in Italia. Questo è un Paese straordinario, ma lo si comprende solo quando ci si allontana. C’è una sorta di assuefazione. Ci si assuefà alla bellezza, i ragazzi che sono nati in Italia e cresciuti qui, forse non si rendono conto, a una certa età, della fortuna che è capitata loro, ma non per ragioni di bellezza ambientale soltanto, ma anche per eredità culturale. Anche per questo è importante viaggiare: per apprezzare cosa ci ha regalato il destino».

Che cosa non funziona?
«Non sta a me dirlo. Però talvolta siamo eredi indegni del grande patrimonio che ci è stato lasciato. Indegni perché non lo proteggiamo. Vi ricordo qual era il giuramento degli amministratori ateniesi raccolti nell’agorà appena dopo l’elezione: “Prometto, o ateniesi, di restituirvi Atene più bella di come me l’avete consegnata”. E in quel “più bella” c’era tutto perché bello era kalòs, quindi significava non solo bella, ma anche buona».
Parlando dei suoi progetti, il nuovo ponte di Genova verrà inaugurato a fine primavera. Perché ha scelto di donare alla sua città la sua creatività?
«Il 14 agosto 2018 è stata una giornata terribile. Ero fuori Italia e ho pensato subito alle vittime, e solo dopo alla mia città ferita. Io, da allora, non penso ad altro. Se guardate Genova dall’alto, il ponte che è crollato era in mezzo alla città, univa il centro nobile al ponente operaio. Se una mano crudele avesse voluto fare male, avrebbe fatto esattamente quello: avrebbe spaccato la città in quel punto. Io mi sono messo a disposizione per dare una mano a ricostruirlo, è stata una decisione emotiva. Quando il sindaco e il governatore mi hanno chiamato chiedendomi di pensare a cosa fare, sono andato immediatamente ai cantieri navali, perché aveva senso che il nuovo ponte fosse in acciaio, per durare mille anni».
Oggi si parla del nuovo ponte Morandi come di un esempio dell’Italia che funziona, con centinaia di operai che vi lavorano senza sosta da oltre un anno. Il Ponte Morandi è stato però anche l’esempio di un’Italia malata e negligente. Perché l’Italia dimostra di funzionare sempre dopo?
«Purtroppo l’Italia che sa reagire non sa ancora prevenire. E mi auguro che parta dal crollo di questo ponte una seria riflessione sulla cultura diagnostica. Solo conoscendo con esattezza lo stato di salute di tutte le nostre costruzioni possiamo proteggere e salvare la nostra stessa civiltà. L’Italia è un Paese di grandi costruttori, progettisti geniali, scienziati, umanisti. E però non sempre applicano quella scienza che viene prima della manutenzione e si chiama diagnostica. Solo con un approccio diagnostico si esce dal campo delle opinioni medievali e si entra in quello delle certezze scientifiche».
E del nuovo ponte cosa ci dice?
«Una città che sa fare le navi, come Genova, sa fare tutto. L’Ansaldo costruiva navi 120 anni fa, e poi i suoi rappresentanti andavano nel mondo a venderle, con i modelli chiusi nelle valigette. In questo cantiere si mette insieme tutto questo patrimonio di conoscenza. E poi c’è l’orgoglio degli italiani…».
In che senso l’orgoglio?
«Costruire genera orgoglio. Qui lavorano insieme mille persone di ogni regione e di ogni nazionalità. L’orgoglio nasce quando hai la consapevolezza di fare una cosa importante per la comunità. Non è un sentimento egoistico, anzi è il più nobile in assoluto perché sei parte di una squadra. Si può tradurre con solidarietà, intento comune, ma il significato è quello: è quando miracolosamente le diversità e le differenze spariscono, e con quelle anche la paura di non farcela. Un cantiere è un lavoro collettivo e costruire rappresenta un gesto di speranza, di fiducia, direi anche di pace».
Va spesso su quel cantiere…
«Appena ho l’occasione, quando sono a Genova ci vado. Negli occhi di chi ci lavora leggo che siamo tutti genovesi, anche se uno viene da Trento, uno dallo Sri Lanka, un terzo da un altro posto. Ti fa venire in mente che Genova, anche per la sua natura portuale, è da sempre una città cosmopolita. E poi lo stupore nel vedere un progetto che, giorno dopo giorno, diventa realtà: è quella la meraviglia del cantiere».

Lei ha detto che questo ponte durerà mille anni…
«Un ponte deve durare migliaia di anni, ma nulla dura così a lungo senza un po’ d’amore. Intendo la manutenzione e ancora prima la diagnostica. Devi amare le cose. In Giappone i templi in legno durano alcune migliaia di anni, perché sono continuamente manutenuti, perché li amano. Gli edifici hanno bisogno di affetto».
Come sarà il nuovo ponte?
«Sarà un grande vascello bianco che attraversa la valle, lo farà mettendo un piede dopo l’altro, chiedendo permesso. La semplicità è il tratto che appartiene al carattere della città, Genova va al sodo con grande forza e insieme con sobrietà».
Il 20 febbraio è iniziato l’abbattimento delle ultime Vele di Scampia, edifici che negli anni 70 sembravano futuristici e che poi si sono rivelati terreno fertile per la criminalità. L’architettura può contribuire a far funzionare un Paese?
«Le periferie sono la nostra grande scommessa. Spesso sono un deserto affettivo o un dormitorio, ma ricche di umanità e quindi il destino delle città sono le periferie. Bisogna fecondarle disseminandole di edifici pubblici, servizi, scuole, università, biblioteche, centri civici, attività culturali, sociali e di servizio. Parlo di costruire dei luoghi per la gente, dei punti d’incontro dove si condividono i valori, dove si celebra un rito che si chiama urbanità. Come scriveva Italo Calvino, anche le più infelici tra le città hanno sempre qualcosa di buono. È qualcosa che dobbiamo scoprire e alimentare. Così avremo città migliori e un’Italia migliore».