Sorry We Missed You, il film che racconta un dramma quotidiano

IL FILM

Di Edoardo Grandi

C’è una cosa che di certo non si può rimproverare all’anziano regista inglese Ken Loach: la mancanza di coerenza. Dall’uscita nel lontano 1967 del suo primo film, il prolifico e pluripremiato autore, rappresentante allora del cosiddetto Free cinema, movimento di registi innovatori nei mezzi espressivi e fortemente politicizzati, non ha mai smesso di occuparsi dei diseredati, dei più sfortunati, delle classi meno abbienti, degli sfruttati. E proprio dei nuovi sfruttati di oggi (che forse sarebbe opportuno definire come schiavi) si occupa con estremo rigore e veridicità il suo Sorry we missed you.

Il protagonista Ricky, un piccolo-borghese che si illude di migliorare la propria vita lavorativa e le condizioni economiche della sua famiglia, accetta un impiego presso un’azienda di consegne, una sorta di Amazon inglese di fantasia. Nel suo più che lodevole impeto, non vede (o non vuole vedere), le clausole disumane e al limite della truffa imposte dall’azienda.

Questo fa sì che venga sempre più travolto dai meccanismi di un sistema perverso, in una concatenazione di eventi via via più disastrosi e umilianti. Non basta l’affettuoso sostegno della moglie Abby, che lavora come assistente a domicilio per un’agenzia privata, a fargli cambiare strada, forse perché non può. L’amaro finale non lascia via di scampo.

Locandina del film Sorry We Missed You

Senza dubbio Sorry we missed you mette a nudo con crudo realismo una realtà oggettiva sempre più diffusa, denunciandone le storture senza sconti e con grande coraggio e onestà. Sottolinea, tra l’altro, la scomparsa della classe operaia e la disgregazione del tessuto sociale, con i lavoratori trasformati in ingranaggi individuali e messi l’uno contro l’altro, senza più il sostegno di una coscienza collettiva, e privi di potere contrattuale.

Si resta però perplessi e si esce dalla sala come dopo essere usciti da un incubo: il film (che appare molto come un docu-film) non lascia nemmeno un esile filo di speranza. Certo, il dramma che viene rappresentato è vero per milioni di persone nel mondo, ma non indica minimamente una possibile via d’uscita o di lotta a questo sistema. 

Si rimpiangono molte opere precedenti di Loach, in cui almeno facevano la loro apparizione anche valori positivi e propositivi: la solidarietà tra compagni di sventura o di lotta, la dignità umana, il credere in ideali comuni e, appunto, la speranza in un mondo migliore. Qui sembra che tutto sia perduto, irrimediabilmente, in un realismo così crudele da sfociare in un totale pessimismo.

IL COMMENTO

Di Chiamaka Sandra Madu

Stacanovista è chi col suo lavoro dimostra zelo e assiduità fuor dal comune. Un esempio eccellente parrebbe essere il protagonista dell’ultimo film di Ken LoachSorry we missed you. Il titolo è ricavato dalla frase standard stampigliata sugli avvisi di consegna lasciati dai corrieri ai destinatari dei pacchi in consegna che non hanno trovato in casa. È la storia di Ricky (Kris Hitchen) e Abby Turner (Debbie Honeywood), che, dopo il crollo finanziario del 2008, lottano contro la precarietà degli ultimi anni in quel di Newcastle, cercando di non far mancare nulla ai loro figli (un sedicenne problematico e una bambina più piccola). Lui è un fattorino mal pagato che lavora, con un contratto capestro, per un’azienda di consegne; lei fa la badante per un’agenzia privata. La loro disastrosa condizione lavorativa e conseguentemente finanziaria li mette di fronte a una dura realtà: non diventeranno mai indipendenti e non avranno mai una casa di loro proprietà. Abby venderà la propria auto per permettere a Ricky di acquistare un furgone e con il nuovo mezzo l’uomo inizierà a fare consegne per conto proprio nell’illusione di poter guadagnare di più. I due coniugi si ritrovano a casa la sera alle nove, e sono entrambi distrutti, con pochissime energie da dedicare ai figli.

Il maschio adolescente crea problemi sempre più grandi: non va a scuola, fa il graffitaro, ruba le vernici che gli servono per i graffiti in un supermercato e la polizia lo ferma. La drammaticità del film raggiunge l’apice quando Ricky viene picchiato a sangue da una banda di giovani delinquenti e deve pagare tutti i danni, non essendo formalmente un dipendente della ditta. Con costole rotte e un occhio chiuso per le botte decide di riprendere subito il lavoro, mentre la sua famiglia cerca di fermarlo. Sembra un suicida ma non è altro che una persona responsabile che si batte fino all’ultimo per la sua famiglia. Un film dal ritmo infernale, così simile alla vita quotidiana dei working poor di oggi. È un finale brusco quello del film, che può voler significare la ciclicità, la ripetitività della catena di disgrazie che inevitabilmente si susseguono. Sicuramente qualcuno avrà trovato il film artefatto ed impietoso, ma la vita di questa giovane coppia racconta esattamente la vita quotidiana di milioni di persone, ormai così schiacciate in questa realtà che non potrebbero neppure sopportare la visione del film. È il ceto medio impoverito, i working poor, siamo noi, sono i nostri amici, sono tutti quelli degli anni Settanta e Ottanta che hanno studiato tanto per ottenere nulla. Sono i titolari di piccole imprese in proprio, oppure dipendenti di aziende, liberi professionisti e via dicendo. Tutti lavoratori seri che non riescono a portare a casa più di poche migliaia di euro l’anno. Eppure dalla mattina alla sera si dedicano con serietà alla loro occupazione. Lavorano, lavorano, lavorano e non guadagnano. I dipendenti hanno stipendi sempre più magri, tutele meno floride che in passato, e vivono spesso in un clima fatto di paura e terrore, visto che possono essere spazzati via facilmente.

Il regista Ken Loach durante le riprese di Sorry, we missed you (Foto: ecodibergamo.it)

I liberi professionisti hanno entrate ancora più misere, a causa delle commesse sempre meno pagate, continuamente tagliate. E su quei redditi lordi bisogna pagare le tasse, i contributi, l’assicurazione medica, la formazione obbligatoria per chi fa parte di ordini, tutte le spese dello studio, la macchina e così via. Alla fine, restano poche briciole, e arrivare a uno stipendio a fine mese è qualcosa di arduo. Sconfortati si chiedono tra le lacrime dove hanno sbagliato, che cosa potrebbero fare di più di quello che fanno, che futuro gli aspetta. Non sono stacanovisti, non hanno sbagliato in nulla, si sono adattati, continuano ad adattarsi, a formarsi. Il problema non sta in loro, ma in come è cambiato il lavoro: svuotato, impoverito, devalorizzato, non più in grado di garantire il mantenimento, proprio quello a cui il lavoro dovrebbe servire. Basti pensare alle mille persone che in Italia, negli ultimi sette anni, schiacciate dal peso dell’instabilità lavorativa ed economica, hanno visto nel gesto estremo del suicidio l’unica via di uscita. Sta cambiando la geografia dell’Italia, dell’Europa, e progressivamente del mondo. Il motivo è l’aver perso non tanto il lavoro, ma il reddito che da quel lavoro dovrebbe scaturire. Con esso la dignità di esseri umani, persone, genitori capaci di sostenere i propri figli. La vita è sacra e come tale deve essere tutelata, vissuta appieno amando gli affetti, facendo anche ciò che ci piace fare.