Di Fiamma Colette Invernizzi e Ilaria Magistri
Mi guarda e sorride, con l’aria di chi ha appena finito di godersi una tavoletta di cioccolato fondente bio con cacao al 75% e zucchero di canna. Non bianco, di canna. «Andiamo!», mi dice, come se mi stesse per trascinare in un parco divertimenti. Emana un’energia contagiosa che non lascia spazio all’ipotesi che entrare in un supermercato la domenica pomeriggio possa risultare una scelta a dir poco tragica. Si muove con la leggerezza e la velocità di chi ha preso consapevolezza di un luogo e di un pensiero, di un corpo e di un ideale. Al reparto ortofrutta posso solamente permettermi di tenere d’occhio il cestino che si riempie, mentre ascolto il suo viavai di verdura sfusa e prodotti biologici. «Michael Pollan, un saggista americano», mi dice con fare divertito, «afferma una cosa che trovo significativa: non mangiate niente che la vostra bisnonna non riconoscerebbe come cibo. Se volessimo dirlo in tre parole, potremmo riassumerlo con provenienza, autenticità e semplicità. Niente di più».

Lezione numero 1: la provenienza. I frutti della terra non devono venire da lontano. «Non lo dico perché il prodotto italiano sia sempre meglio di quello di altri Paesi», continua, «ma perché voglio mantenere il mio potere d’acquisto ecosostenibile. Quando compro una verdura, inevitabilmente compro anche il suo biglietto di viaggio per arrivare fin qui e i trattamenti che subisce per restare fresca più a lungo del dovuto. In poche parole compro inquinamento e conservanti. Tu compreresti inquinamento e conservanti?», mi chiede stupita. No, non lo farei. Certo che no. Lungi da me. Eppure qualche volta ci sarò cascata, come tutti. «Il segreto sta nel conoscere la stagionalità dei prodotti, per non comprare le fragole a dicembre e i broccoli a giugno, rispettando il territorio in cui viviamo e le abitudini alimentari che conserviamo da svariate generazioni. Quando leggo Italia sul cartellino, mi sento più serena».
Con la Lezione numero 2 – l’autenticità – mi sorprendo della sua capacità di afferrare i prodotti che meno si notano sugli scaffali, quelli senza scritte strillanti e confezioni dai colori troppo accesi. Sceglie quelli in basso, quelli in fondo, quelli che occupano poco posto o che, semplicemente, a me passerebbero del tutto inosservati. «La cosa fondamentale», esprime con aria seria, «è fare la spesa con il cervello e non con gli occhi. Ci sono tonnellate di studi di mercato, di pubblicità e di slogan pronti a farci comprare quello che non vogliamo. L’unica cosa che ci può aiutare è questa: l’etichetta». La guardo e mi chiedo quante cose non so, quanto tempo non ho speso finora a leggere gli ingredienti di quello che mangio ogni giorno. «Prima di tutto è necessario prendersi un momento per essere curiosi», sorride lei, «per non accontentarsi delle immagini fasulle e accattivanti che ci vengono proposte. Quando leggi scritto “senza zucchero” o “zero grassi” cosa pensi che significhi? Che la maggior parte delle volte l’alimento contiene qualcosa che li sostituisce. Edulcoranti, ad esempio, o aromi e dolcificanti artificiali». Mi indica il cartellino e legge con attenzione, prima di ricominciare a raccontare la sua esperienza senza fondo. «Come saprai già, gli ingredienti sono elencati per ordine di quantità, espressi in percentuale. Il primo è quello principale e poi a seguire vengono tutti gli altri, fino ad arrivare agli additivi, che sono presenti in quantità minime (anche se certi studi scientifici dicono che ne consumiamo fino a sette chili all’anno!). Il mio motto è meno ingredienti possibili, meglio specificati.

Ti faccio un esempio: l’olio. Io non mi accontento di leggere “olio vegetale”, anzi. Vado a cercare l’olio d’oliva, nello specifico quello extra vergine di oliva. E se, in più, è specificato che è spremuto a freddo allora sento musica per le mie orecchie. Olio extra vergine di oliva spremuto a freddo. Wow. E sai perché? Perché so che ho a che fare con un produttore che tiene al suo lavoro, dato che per legge non è obbligato a portare una descrizione così dettagliata. Se lo fa è perché ha cura di ciò che vende e di chi consuma». Imparare a leggere deve avere questo sapore di libertà. Imparare a capire, anche. Imparare a vedere, pure. Non tanto perché ci sia qualcosa di difficile, quanto per l’attenzione e l’impegno che ci stanno dietro. «Sai, la prima volta a fare la spesa ci puoi mettere anche due ore», ammette con una tranquillità serafica, «ma poi impari cosa comprare, fai riferimento su certe marche, ti velocizzi nella lettura delle etichette e alla fine ci metti lo stesso tempo, con la consapevolezza di aver fatto una buona spesa, sostenibile e sana». Due ore impiegate bene, insomma. Due ore che durano settimane di salute, e forse una vita di buone abitudini. Dell’adesivo informativo mi mostra altre due cose, a suo dire fondamentali. La prima è la tabella nutrizionale, la seconda è l’indicazione di smaltimento degli imballaggi. Altri mondi, altre lezioni. «Nella tabella nutrizionale trovi tutto il necessario, dai valori energetici alle proteine, dai grassi ai carboidrati. Le quantità specifiche sono abitualmente calcolate su 100 grammi di prodotto, ma ogni tanto per renderli più accattivanti li esprimono sui 30 grammi. Fare attenzione è fondamentale, sempre, perché l’inganno è perennemente in agguato. La seconda cosa importante è sapere cosa fa bene all’organismo e cosa no. Per esempio i grassi in sé, quelli insaturi, non sono cattivi. Mentre bisogna stare attenti a che percentuale di questi grassi è satura, per cui più nociva per l’organismo. Lo stesso vale per i carboidrati e gli zuccheri. I primi sono necessari, sui secondi bisogna fare più attenzione, per non eccedere». Lo ammetto, più ascolto e più mi sento davanti ad una scalata impossibile da affrontare, per la quantità di nozioni a cui non ho dato peso fino ad ora. Il pesce meglio se pescato e non allevato, gli imballaggi riciclabili o facilmente separabili in rifiuti distinti – cosa che è ben segnalata sulle etichette! – gli additivi presenti in percentuali bassissime.
E pensare che il Ministero della Salute ha pubblicato online un documento open source intitolato proprio Etichettatura degli alimenti. Cosa dobbiamo sapere. Venti pagine di nozioni utilissime che, sfortunatamente, non trovano posto né nei supermercati, né nelle scuole. Le scuole. Vorrei portare una classe intera a fare la spesa, ora che so certe cose. Una scuola intera.
La Lezione numero 3 – quella sulla semplicità – mi lascia letteralmente a bocca aperta. «Lo dice anche Berrino, no? Mangiate i cibi per quello che sono», mi stuzzica con aria di sfida, indicando l’ultima riga di un elenco lunghissimo di ingredienti incollati a una confezione, «allora voglio mostrarti una cosa. Guarda. Con gli additivi si apre un mondo difficilissimo da conoscere. Ci sono quelli che vengono espressi a dicitura intera (incomprensibili) e quelli che vengono indicizzati con il codice europeo (ancora più incomprensibili). Però alcuni li ho imparati a memoria, tra un articolo scientifico e l’altro. Per esempio: l’E-120 è un colorante, utilizzato per mantenere bello l’aspetto di certe carni rosse, ed è composto da farina di cocciniglia. Polvere d’insetto, insomma. L’E-471 è un composto utilizzato come emulsionante e deriva sia da elementi vegetali che animali, senza che venga precisato. Potresti pensare di comprare un prodotto vegano, per esempio, e trovarci dentro derivati animali. Senza saperlo. Lo stesso accade con l’E542, il mio preferito!, che è un fosfato, generato dai resti delle ossa delle carcasse di animali macellati, come mucche e maiali. Eppure perché nessuno lo dice ad alta voce?». Bella domanda.