Di Bill Niada
Sono più di dieci anni che sentiamo parlare di crisi economica, di emergenza. Com’è possibile? Dove sta andando il nostro sistema economico? Ne parliamo con l’economista Francesco Daveri, direttore del Full-Time MBA presso l’Università Bocconi di Milano.
Professore, una crisi può durare 10 anni?
«Sì, le crisi possono durare periodi di tempo lunghi. Ma attenzione, analizziamola, perché in realtà non riguarda tutti. Se guardiamo ai dati e alla velocità di crescita del prodotto interno lordo (PIL), vediamo che, al netto dell’inflazione, la crescita media nel mondo degli ultimi 40 anni è stata del 3,4% all’anno. Ma se guardiamo ai tassi di crescita dei singoli Paesi ci renderemo conto che sì, parliamo di crisi in Italia e in Europa da ormai 10 anni, ma non tutto il mondo la vive. Là fuori ci sono altri Paesi con un peso sociale e demografico molto importanti, capaci di crescere a tassi molto più alti del nostro. È un mondo più giovane, che sta provando a crescere. La crisi riguarda quindi più che altro l’esaurirsi delle possibilità di crescita per l’Occidente».

Che valore ha per Lei la crescita economica?
«Se c’è sviluppo economico e la società cresce intorno ad esso, significa che il meglio deve ancora venire. Stabilisce a quali orizzonti e con che fiducia le persone possano guardare al domani».
Io ho l’impressione che la crescita economica dia particolari benefici solo a pochissimi, mantenendo la maggior parte delle persone in una situazione di difficoltà e povertà. Inoltre, non mi sembra che la Terra in questo momento possa avere un futuro sempre migliore. Non è arrivato il momento in cui questa visione del domani debba essere rivalutata? Forse ci sono delle priorità che stanno subentrando in maniera urgente…
«Lei giustamente pensa, se una crescita è diseguale, che crescita è? Ma dobbiamo distinguere. Se guardiamo al rapporto crescita e povertà, alla crescita “quantitativa“, negli ultimi 200 anni, la percentuale della popolazione povera sulla popolazione complessiva, è scesa dal 95% al 15%.
Quando cresce il PIL pro-capite, la percentuale di poveri all’interno della popolazione diminuisce. Il dato di lungo periodo del capitalismo di mercato, segnala quindi che la crescita economica è associata a una riduzione rilevante di povertà. Per quanto riguarda il rapporto tra crescita e diseguaglianza, la questione è diversa e legata alla tenaglia creata dall’incontro tra tecnologia e globalizzazione che, negli ultimi anni, ha colpito in maniera trasversale anche persone con una formazione e una professionalità di determinati livelli che, in passato, li avrebbero collocati nella classe medio alta. La pervasività della digitalizzazione tende ad accelerare situazioni di monopolio e crea maggiori condizioni di vantaggio per individui e aziende che rimangono di moderate dimensioni dal punto di vista della creazioni di posti di lavoro, e quindi del benessere sociale, creando una polarizzazione della classe media. La situazione è ancora più preoccupante perché nel frattempo gli Stati stessi sono diventati più pesanti, spesa e debito pubblico pesano sempre più e questo rende loro difficile intervenire a sostegno dei cittadini. Un altro tema ancora è il rapporto tra crescita e ambiente. L’idea di crescita rapida del capitalismo si è scontrata con il problema dell’insostenibilità, già espresso da decenni, dato dal ritmo e dalla depauperazione delle risorse non rinnovabili. Oggi è fondamentale capire come rendere compatibile lo sviluppo economico e sociale, con altre esigenze che a questo punto sono diventate più urgenti rispetto a prima. Dobbiamo lasciare da parte l’idea di una crescita meramente quantitativa, ma dobbiamo continuare a credere e a dire ai giovani che il meglio deve ancora venire».

Per me uno dei più grandi errori della società è l’ossessione per il denaro. Bisognerebbe inserire in modo sempre più prioritario il concetto di impatto sociale e ambientale sia negli ambienti di formazione, sia nelle aziende che detengono le leve economiche e del potere.
«Molti opinion maker, dal Papa a Yunus, sollevano questo punto fondamentale e provano a influenzare con parole e azioni i comportamenti quotidiani delle aziende. Io cerco di concentrarmi sulle cose positive che stanno già avvenendo e cerco di capire in che modo si può farle andare ancora meglio, quali insegnamenti possiamo trarre dalle crisi. Per esempio, l’attenzione alla sostenibilità, che sta diventando molto più di uno strumento di marketing, ma punto cardine anche dello sviluppo economico aziendale. Per quanto riguarda il fatto che le persone abbiano solo il denaro in mente, questo è connaturato con il sistema capitalistico, che è quello che abbiamo e difficilmente possiamo abbandonare. Io cerco di insegnare a guardare al capitalismo concorrenziale, in alternativa a quello attuale monopolista, che genera troppa diseguaglianza, vincitori e perdenti, soprattutto oggi, unito alla tecnologia. L’altra questione è che non dobbiamo creare una società di assistiti, ma una società in cui aiutiamo le persone a stare attaccate ai posti di lavoro, senza far loro perdere il treno della tecnologia, bisogna dare a tutti gli strumenti per riprogettarsi di fronte a un mondo che cambia».
Se lei dovesse fare il ministro dell’economia in una politica libera e democratica, la prima cosa che farebbe, qual è?
«Secondo me in Italia, Paese piuttosto piccolo, quello che può fare un ministro è prima di tutto cercare di mettersi d’accordo con gli altri ministri europei cercando di capire quali siano le politiche migliori per sfruttare al meglio tecnologia e finanza. Per esempio, capire i modi di tassare le multinazionali, come regolamentare l’attività finanziaria in modo che faccia arrivare il credito ad aziende e famiglie; in modo da raccogliere risorse fiscali utili a finanziare la spesa pubblica, che continuerà ad essere importante, e che serve ad assistere le persone che non ce la fanno per conto loro, e dall’altra dovrebbe aiutare i lavoratori a continuare ad essere lavoratori, anche in un’epoca di progresso tecnico. Le altre voci di spesa cercherei di lasciarle un po’ da parte».